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Cinema e riscrittura

Riscrittura nel cinema non significa solo "fare un remake". Il cinema è l'arte che riscrive per antonomasia, è divoratore di storie che sa ricollocare e reinventare su molteplici livelli. Luigi Paini ci presenta quindi una rassegna in cui John Ford ridisegna Maupassant e Visconti un'opera lirica di Donizetti; Eastwood e Kurosawa giocano sui punti di vista e Van Sant omaggia Hitchcock in modo maniacale giocando sui dettagli

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Prima viene sempre la scrittura. I film nascono sulla pagina: un’idea, un soggetto, una sceneggiatura (più o meno “di ferro”). Cinema e scrittura sono legati a doppio filo: la “super-realtà” creata per il grande schermo si è già materializzata, prima delle riprese, sulla pagina (un tempo, concretamente, materialmente di carta). La scrittura, di per sé, tenderebbe alla sclerosi: una volta stampato, un libro non si cambia più, almeno per quella edizione. Il cinema ha dunque il non piccolo vantaggio di venire “dopo”. È, per natura, una ri-scrittura. Non si contano i registi che, partendo da una sceneggiatura anche precisissima, capace di pre-vedere tutto, si sono presi la libertà di inventare, di volare, di violare i diktat del testo. Charlie Chaplin, ad esempio, poteva arrivare a girare la stessa sequenza centinaia e centinaia di volte, snervando letteralmente la troupe, in uno sforzo sovrumano di ricerca della perfezione. E sono infiniti i ritorni nel corso della storia del cinema su film del passato, attraverso lo strumento del remake: rifacimenti, ogni volta con qualcosa in meno o in più, secondo i gusti del regista (e le imposizioni della produzione). Scrivere-riscrivere: un pendolo in eterna oscillazione, un gioco a rimpiattino tra passato e futuro, alla ricerca di sempre nuovi stimoli per attirare l’unico, vero “padrone” del grande schermo. Sua Maestà lo Spettatore.

Ombre rosse, John Ford (Usa 1939)

Maupassant nel Far West. Dalla guerra franco-prussiana ai paesaggi della Monument Valley. La “macchina Hollywood” si è sempre dimostrata una grande divoratrice di storie: qualsiasi soggetto può diventare utile, può creare spettacolo se trattato dalle mani sapienti di sceneggiatori di vaglia. All’inizio c’è il racconto di Guy de Maupassant “Boule de suif” (“Palla di sego” in italiano). Una donnina di facili costumi (come si diceva allora…) si aggrega a un gruppo di benpensanti in fuga dalle truppe prussiane in rapidissima avanzata. Viene guardata con disprezzo, tenuta in disparte dal resto della compagnia, finché non arrivano i morsi della fame: la giovane è l’unica del gruppo ad avere un cestino fornitissimo di ottimi cibi. E poi c’è un ufficiale nemico che la vuole assolutamente. Lei si rifiuta, mai con un tedesco!, ma i compagni d viaggio, pur di avere via libera, la spingono al sacrificio. Ripreso da un racconto uscito in America (“Stage to Lordsburg”, di Ernest Haycox) la storia creata da Maupassant passa attraverso una seconda riscrittura e arriva a John Ford, il più grande dei registi hollywoodiani, il cantore del West.  La donna-reietta diventa Dallas, prostituta cacciata dal villaggio di frontiera. Dovrà partire in diligenza, attraversando territori minacciati dai pellerossa, che hanno nel frattempo dissotterrato l’ascia di guerra. Fra gli altri viaggiatori abbondano i benpensanti, persone che con Dallas non vorrebbero avere nulla a che fare. Eppure, nel momento del bisogno, sarà proprio lei a dimostrare un’umanità che molti dei suoi compagni di viaggio (a parte Ringo-John Wayne, fuorilegge dal cuore d’oro) non posseggono per nulla. Dalla Francia al West il passo è molto, molto lungo: ma la riscrittura funziona alla perfezione, dalla pagina scritta al grande schermo, dalla società borghese all’epica dei pionieri. Ford-Omero estrae il senso più profondo del racconto di Maupassant. Magia, pura magia di Hollywood dell’età dell’oro.

Bellissima, Luchino Visconti (Italia 1951)

Un’opera lirica in filigrana. In superficie una storia di ordinaria follia nel mondo dello spettacolo. Una donna del popolo che sogna un futuro dorato per la giovane figlia, vite di poveracci confrontate con quelle fuori dalla norma dei divi che riempiono le cronache e le pagine dei rotocalchi. Insomma, l’Italia in bianco e nero che sogna di uscire dal suo grigiore quotidiano, immaginandosi chissà quali delizie nell’Eden abitato da chi tutto può. E l’opera lirica? Visconti l’annuncia fin dal prologo: si tratta dell’”Elisir d’amore”, di Gaetano Donizetti. “Sarà possibile? Possibilissimo. Non è probabile. Probabilissimo. Ma come mai? Ma donde il sai? Chi te lo disse? Chi è? Dov’è?”. Si è sparsa la voce che un regista, il celebre Alessandro Blasetti, sta cercando una bambina per farle interpretare il suo prossimo film. L’aria di Donizetti introduce la convulsa diffusione della notizia, e il successivo arrivo a Cinecittà di frotte di mamme con le loro bambine. Ma il fil rouge dell’opera continua per tutto il film. Quando Blasetti entra finalmente in scena, ecco il “tema del capitano”, che rimanda la sua figura a quella del dottor Dulcamara, l’imbonitore, il venditore di sogni. E così fino alla fine, quando con le note di “Quant’è bella, quant’è cara” lasciamo Maria, la bambina, finalmente uscita dal sogno-incubo del successo da ricercare a ogni costo. Visconti gioca su più piani: l’opera, il cinema, l’estetica del neorealismo, l’omaggio ad Anna Magnani, attorno alla cui figura carismatica è costruito tutto il film. Donizetti riscritto per il grande schermo: quasi un commento dietro le quinte, lo sguardo sornione di chi, delle cose umane, tutto sa e tutto comprende.

   

Flags of our fathers – Lettere da Iwo Jima, Clint Eastwood (Usa 2006)

Due film, due storie, un avvenimento cruciale: la sanguinosissima battaglia di Iwo Jima, combattuta tra americani e giapponesi nei primi mesi del 1945. Due punti di vista, due scritture–riscritture dello stesso momento storico. Clint Eastwood non si limita però al doppio punto di vista. Complica ancora di più il gioco con lo spettatore. Nella parte “americana”, Flags of our fathers, mostra come dietro la scrittura ufficiale ci sia una realtà diversa. La foto celeberrima dei marines che innalzano la bandiera a stelle e strisce, diventata simbolo della vittoria nel Pacifico, è in realtà un falso. Non si tratta infatti di un’istantanea, ma di una ricostruzione a freddo, a uso e consumo della propaganda. Nulla viene tolto al valore dei soldati, solo si mostra come le armi del consenso possano essere tanto potenti e indispensabili per la vittoria finale quanto quelle da fuoco. In quel momento della guerra serviva uno sforzo economico gigantesco da parte del popolo americano e quella foto, in quella posa icastica, serviva ottimamente allo scopo. E dall’altra parte? Il secondo film assume il punto di visto dei giapponesi, riscrive la battaglia attraverso gli occhi di chi l’ha persa, lottando disperatamente fino all’ultimo uomo. E la riscrittura avviene attraverso la scrittura: sono infatti le lettere del generale a capo del presidio nipponico, ritrovate insieme a quelle di molti altri soldati dopo la battaglia, a fornirci uno sguardo inedito su quanto è accaduto. Anche i nemici, visti durante gli scontri come belve feroci assetate di sangue, erano in realtà uomini in carne e ossa, con famiglie, figli, amori, amicizie. Due film, un solo centro di gravità. Riscrivendo la storia, Eastwood non dimentica il suo maggior punto di forza: la scrittura, classica, della Hollywood migliore.

Rashomon, Akira Kurosawa (Giappone 1950)

Un samurai, sua moglie, un bandito, un boscaiolo, un bonzo, un servo: ecco le dramatis personae. Nel bosco c’è stato un delitto: il samurai è stato ucciso, la moglie violentata. Chi è il colpevole? E come si sono svolti i fatti. Ognuno dà una versione diversa, si arriva addirittura ad evocare lo spirito del samurai per ascoltare anche il suo racconto. Il fatto, in sé, non esiste più: esistono solo le sue riscritture, ognuna attuata con il preciso scopo di occultare una parte della verità. Il samurai era davvero un uomo valoroso? La moglie ha saputo difendere il suo onore? Il bandito è stato così crudele come tutto lascia pensare? E il boscaiolo, che ha visto tutto, non avrà anche lui qualcosa da nascondere? Kurosawa, partendo da un racconto di Ryūnosuke Akutagawa, riscrive i dilemmi di Pirandello (autore da lui molto ammirato) nel Giappone medioevale. Ci affascina con la ricostruzione di un mondo lontano, con le movenze solenni dei suoi personaggi; e ci spaventa con la constatazione tragica dell’inafferrabilità della verità. Ognuno racconta quanto gli conviene; ogni riscrittura ci fa capire qualcosa di più, e allo stesso tempo ci preclude uno sguardo complessivo. E a proposito di riscritture: Alfred Hitchcock riprende il tema in un gustosissimo  episodio della serie tv “L’ora di Hitchcock” intitolato “I shaw the whole thing- I cinque testimoni”. Tutti vedono un incidente stradale, ognuno ne fornisce una versione diversa: qual è dunque la verità?. E inoltre, il film di Kurosawa viene a sua volta riscritto anche a Hollywood nel 1964 da Martin Ritt, trasformandosi in un western niente male. Il titolo del film, con un ottimo Paul Newman, è “L’oltraggio”.

Psyco, Alfred Hitchcock (Usa 1960) / Psycho, Gus Van Sant (Usa 1998)

Ed eccoci, inevitabilmente, a Hitchcock. O meglio, eccoci all’”influsso” di Hitchcock. “Psyco” è del 1960: un film terrificante, un’ola di paura che attraversò i cinematografi di tutto il mondo, anche grazie a un sapientissimo lancio pubblicitario (chi vuole saperne di più può vedere il film “Hitchcock”, diretto da Sacha Gervasi nel 2013). Un film che ha lasciato un segno davvero profondo nella storia del cinema: nessuno, prima, aveva osato tanto; nessuno aveva “torturato” così nel profondo lo spettatore. Gus Van Sant se ne ricorda quasi 40 anni dopo, e dirige un remake assolutamente atipico. Riscrive infatti il film originale fotogramma per fotogramma, inquadratura per inquadratura, sequenza per sequenza. Che senso ha un’operazione così maniacale? Nell’identità, a ben vedere, emergono le differenze (se ne riverbera quasi un’eco nei titoli delle versioni italiane: “Psyco”-“Psycho”). Minime, eppure significanti. Ad esempio il colore, che nell’originale non c’era, e che dà un’impressione di realtà (o di irrealtà?) del tutto nuova. E poi, gioco perverso, vengono inserite qua e là “immagini subliminali”: piccoli frammenti appena percepibili dal nostro occhio, e che tuttavia aggiungono un “di più” di senso. Una sorta di sfida per lo spettatore, invitato a scoprire quei piccoli scarti rispetto al film matrice. Una riscrittura-omaggio, una copia conforme con scarti, una follia. Il mago Hitch, sornione as usual, avrebbe molto probabilmente apprezzato.

 Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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