Vero/Falso. Ne discute la filosofia dal suo nascere, figuriamoci il cinema che di anni ne ha poco più di cento. Ma ne può parlare a ragion veduta, perché il cinema si pone, radicalmente, sul confine tra vero e falso. Anche il documentario, la forma cinematografica apparentemente più vicina al vero, è a ben vedere un’ulteriore, più raffinata se vogliamo, forma di “falsificazione”. Certo, può essere utile per avvicinarci al “vero”, per farci comprendere meglio i fatti, la storia, la realtà, i segreti che si nascondono dietro la propaganda. Ma lo spettatore non deve mai essere passivo, perché altrimenti l’inganno può scattare a ogni momento. È il regista, insieme allo sceneggiatore, che ha in mano saldamente le redini e può condurci esattamente dove vuole lui. E infatti, ogni dittatore, da Stalin a Hitler a Mussolini, ha visto nel cinema un’arma formidabile per dominare le masse. Gli esempi sono innumerevoli, il pericolo è sempre dietro l’angolo, anche nelle nostre democrazie. Dunque, un solo possibile rimedio: coscienza vigile, occhi sempre aperti, eyes wide open!
Giarabub, di Goffredo Alessandrini (Italia 1942) / Bengasi, di Augusto Genina (Italia 1942)
Prima di tutto osserviamo l’anno di realizzazione. Questi due “film di guerra” italiani, prodotti con notevole impiego di mezzi e ambientati nell’Africa del Nord, uscirono in sala proprio nei mesi in cui le sorti del conflitto cominciavano ad apparire sempre più compromesse per il nostro Paese. Giarabub, ambientato nel 1941, “dimentica” addirittura le gravissime sconfitte subite dagli italiani in Libia da parte degli inglesi nella prima fase delle ostilità. Il nostro esercito, dopo un’iniziale avanzata verso l’Egitto, era stato infatti rovinosamente travolto. Il film di Alessandrini non fa mai cenno al resto del fronte, e si concentra invece su un episodio marginale, l’assedio da parte del nemico all’oasi-fortilizio di Giarabub, ponendo l’accento sul valore e sull’umanità dei soldati italiani. Sconfitti sì, ma con l’onore delle armi e solo perché isolati e impossibilitati a ricevere i rifornimenti necessari. Dunque, in questo caso, la “fake news” consiste soprattutto in un abile nascondimento della portata reale della batosta. Il secondo film, Bengasi, racconta diverse vicende intrecciate nella città libica del titolo, prima assediata e occupata dalle truppe britanniche e poi riconquistata dai soldati italiani. Fanfare e gloria, con grande successo di pubblico (le due pellicole, interpretate dai maggiori divi del momento, da Amedeo Nazzari a Fosco Giachetti a Carlo Ninchi, furono molto ben accolte in sala) ma nel frattempo l’amara realtà aveva già tramutato la guerra voluta da Mussolini in un’immane tragedia.
Piombo rovente, di Alexander Mackendrick (Usa 1957)
Lo seguono sessanta milioni di lettori, ogni giorno. La sua rubrica, pubblicata su uno dei più importanti quotidiani degli Stati Uniti, dona a J.J. Hunsecker un potere praticamente illimitato: basta una sua parola per decretare il successo o il fallimento di un protagonista del mondo dello spettacolo o di un uomo politico. Hunsecker usa questo suo potere senza scrupoli, avvalendosi dell’aiuto di un galoppino, Sidney Falco, se possibile ancora più amorale di lui. Pettegolezzi, cattiverie, smaccate falsità sono pane quotidiano per i loro denti, e Falco ne è un raccoglitore instancabile. Ora però il temutissimo giornalista ha un cruccio privato: la giovane sorella, alla quale è legato da un rapporto di affetto morboso, si è innamorata di un musicista emergente. E a lui, al potente columnist, la cosa non va affatto giù. Facile intuire come la rubrica possa diventare, da questo momento, il mezzo usato per rovinare la reputazione del ragazzo, in modo da renderlo odioso alla fidanzata. Il film scava nel mondo delle redazioni, dove le notizie possono essere create ad arte da personaggi abietti. Non importa nulla il “tasso di verità” delle news: importa solo la loro capacità di creare o distruggere, di diventare puri strumenti di potere. Nella lontana America degli anni 50 i problemi che si dibattono sono già quelli dei nostri giorni: a partire dalla facilità con cui si può stravolgere la realtà, inventandosi di sana pianta le notizie, da parte di chi, per dovere professionale, dovrebbe invece cercare di spiegare il mondo al lettore nel modo più onesto possibile.
The Post, di Steven Spielberg (Usa 2017)
L’altra faccia della stampa americana. Dopo il giornalista di New York che approfitta spudoratamente del proprio ruolo, manipolando la realtà a suo vantaggio, ecco invece la forza della stampa libera, che grazie all’abilità e alla dirittura morale dei suoi reporter riesce a scovare la verità celate dietro bugie e reticenze di chi detiene il potere. Potere che, nella storia vera raccontata dal film, nasconde da lungo tempo quanto sta realmente accadendo in Vietnam. La vicenda si svolge all’inizio degli anni 70, durante la presidenza di Richard Nixon, ma la lunga scia di fake news è iniziata molto prima: la Casa Bianca ha sempre evitato di rivelare al Paese le difficoltà incontrate sul campo, facendo trapelare informazioni incomplete e fuorvianti, con il solo scopo di convincere l’opinione pubblica della sicura vittoria nella guerra in corso nel Sud Est asiatico. Ma esistono documenti segreti che dimostrano esattamente il contrario, e il Washington Post, quotidiano della Capitale, ne è venuto in ossesso. Che fare: pubblicarli, rischiando l’incriminazione? Vale la pena tentare il tutto per tutto, mettendo a segno un clamoroso scoop, capace di risollevare le sorti economiche, niente affatto brillanti, del quotidiano? La decisione è pressoché interamente sulle spalle della nuova proprietaria, frequentatrice di altissimi salotti politici ma inesperta, almeno in un primo tempo, di imprese editoriali. Ci vuole coraggio, enorme coraggio, e la donna dimostra di averlo, anche contro il parere di alcuni suoi collaboratori. La stampa americana, in questo caso, si mostra all’altezza della fama. E di lì a poco, come lascia capire la sequenza finale, dovrà ancora una volta superarsi, scoperchiando lo scandalo Watergate, un’altra prova di arroganza del potere svelata dalla schiena dritta di un gruppo di giornalisti.
Morto Stalin se ne fa un altro, di Armando Iannucci (Usa, Francia, Gran Bretagna 2017) / Good bye, Lenin!, di Wolfgang Becker (Germania 2003)
Ha dichiarato il regista: “Si tratta di finzione, ma è una finzione narrativa ispirata a fatti reali. Il mio obiettivo è che il pubblico senta il tipo di ansia di basso livello che le persone avevano quando iniziarono a parlare di come erano le loro vite quotidiane all’epoca dei fatti narrati nel film”. Dunque, rieccoci al consueto nodo verità-finzione. Il miglior cinema, attraverso la finzione (=falsità) ci fa intravedere la verità. Paradossale, sicuramente. Eppure pochi film come questo ci fanno capire il clima di terrore che si respirava in Unione Sovietica durante lo stalinismo. “Il mito dell’Urss è stato una delle più colossali fake news propalate nel XX secolo”, scrive Antonio Carioti sul Corriere della Sera dello scorso 15 gennaio, e la sua affermazione condensa in modo perfetto il contenuto dell’opera di Iannone. Sono i giorni, tra febbraio e marzo del 1953, dell’agonia e morte del ferocissimo Stalin, il dittatore comunista che ha dominato per decenni con il terrore sull’Unione Sovietica. Si scatena immediatamente la lotta per la successione, nel segreto dei corridoi dei palazzi del potere. Nulla deve trapelare al di fuori, il mito di Stalin e del Partito comunista non devono essere intaccati. Il Falso è diventato il Vero, solo pochi eletti possono essere al corrente di come stanno realmente le cose. Sul mito comunista, questa volta in versione “privata”, è molto illuminante anche Good bye, Lenin!, realizzato in Germania nel 2003. In questo caso a essere al centro del racconto è il crollo del Muro di Berlino e della Germania Est. Come fare a comunicare la notizia a un’anziana fervente comunista che, proprio nei giorni di quegli avvenimenti epocali, era caduta in coma? Semplicemente nascondendole la verità al suo risveglio, con una infinita serie di grottesche bugie. Come si vede, la catena di montaggio delle fake news, pubbliche o private, non si ferma mai.
Green Zone, di Paul Greengrass (Usa, Gran Bretagna, Francia, Spagna 2010)
Armi di distruzione di massa. È sicuro, afferma il Presidente Bush jr, ci sono prove schiaccianti, nessuno può mettere in dubbio che Saddam Hussein, il sanguinario dittatore dell’Iraq, possieda micidiali armi di distruzione di massa. E invece no! Di quei fantomatici ordigni, alla base nel 2003 dello scatenamento da parte degli Stati Uniti della Seconda Guerra del Golfo, non si trova traccia. L’ufficiale americano Roy Miller, sulla base delle informazioni dei Servizi segreti, fruga un possibile nascondiglio dopo l’altro, ma la ricerca si rivela sempre infruttuosa. E il motivo diventa ben presto evidente anche a lui: si tratta di una falsa notizia, quelle armi non ci sono affatto e non ci sono mai state! Nel frattempo, altri soldati americani sono alla ricerca di un generale iracheno che, se catturato, potrebbe svelare la verità. E dunque va eliminato prima che possa scoperchiare il castello di menzogne. Ancora una volta è un film di finzione, con sequenze d’azione estremamente spettacolari, che spinge lo spettatore a prendere coscienza delle menzogne del potere. E proprio Miller, l’ufficiale che non si limita a eseguire gli ordini dei superiori ma vuole scoprire la realtà dei fatti, proprio Miller farà in modo che la verità non resti segreta: le cose da lui scoperte, infatti, saranno infine rivelate anche ai mass media.
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