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Il canto delle sirene

L’autobiografia, ovvero “lo spettacolo della propria vita”

Un genere letterario a metà tra realtà e finzione: l'autobiografia come costruzione di sé, dalle Confessioni di Rousseau e dal grande capolavoro novecentesco di Thomas Bernhard. Andrea Tarabbia ci illustra alcuni esempi per riflettere sul significato di veridicità e autenticità nel genere letterario dell'autobiografia.
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Può sembrare strano che, in un numero dedicato alle fake news, si parli di autobiografia: tendenzialmente, infatti, si direbbe che chi è spinto a radunare e a raccontare le vicende della propria vita, lo faccia perché desidera tramandare cose che ritiene importanti per sé e per gli altri e perché vuole offrire ai lettori una visione del mondo che ha maturato in seguito a certe esperienze fuori dell’ordinario; allo stesso tempo, si direbbe che, affinché possa essere considerata un’opera di valore e perché il suo contenuto valga la pena di essere letto, l’autobiografia deve raccontare la verità: leggo la storia della vita di uno scrittore, di un attore, di uno sportivo, di un grande musicista perché voglio sapere qual è stato il percorso che l’ha portato a diventare ciò che io ammiro. Dunque voglio ricevere il maggior numero possibile di notizie e voglio essere certo che siano reali, che ciò che viene descritto sia realmente accaduto e nei termini in cui è raccontato. Naturalmente, e qui sta il punto, questa cosa non accade praticamente mai. Nelle autobiografie si mente sempre, in modo più o meno consapevole, e questo in barba a Jean-Jacques Rousseau, che cominciò le sue Confessioni – l’autobiografia con cui inizia, si può dire, la letteratura moderna – con la celeberrima frase: «Mi accingo a un’opera senza esempi e senza imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura, e quest’uomo sarò io».  Le confessioni sono un’opera scritta con l’idea di raccontare il cuore umano in ogni sua piccola sfumatura, nel bene e nel male: va da sé che, per realizzare tale scopo, l’autore deve essere onesto, mostrarsi sincero fino all’impudicizia, senza paura di esporre anche le proprie vergogne. Rousseau cominciò a scrivere la sua autobiografia intorno alla metà degli anni Sessanta del Settecento, quando era poco più che cinquantenne; l’opera fu pubblicata dopo la sua morte, avvenuta nel 1778, ed è il racconto di una vita ma anche dell’evoluzione del pensiero di quello che è stato uno dei più grandi pensatori del XVIII secolo, che in questo libro decide di mettersi a nudo, raccontando ogni minuzia, ogni circostanza della sua vita: «se taccio su qualcosa, non mi si conoscerà in nulla» scrive, in quello che è un vero e proprio esame di coscienza fatto in pubblico.
Per un approfondimento su Rousseau e la sua autobiografia clicca qui
  Non siamo qui per misurare il grado di veridicità e di attendibilità delle Confessioni di Rousseau, ovviamente. È più interessante sottolineare che quella scritta dal filosofo ginevrino è un’opera concepita e scritta secondo un principio teoricamente ovvio (raccontare la propria vita così come è ed è stata), ma praticamente sempre disatteso.  

Il patto con i lettori e il suo paradosso

Philippe Lejeune, studioso francese e autore di un libro fondamentale sull’autobiografia, Il patto autobiografico (1975), scrisse che ogni opera che parla del sé consegna al lettore inevitabilmente un ritratto fasullo, contaminato dell’io. Ma andiamo con ordine: quando scrive un’autobiografia, l’autore prende, come abbiamo visto in Rousseau, un impegno con i lettori: quello di dire la verità. Stabilisce perciò un patto (appunto il patto autobiografico) con chi acquisterà il libro: tu, lettore, mi leggi e io ti garantisco che le vicende di cui leggerai sono accadute veramente. Anche il romanziere – cioè colui che scrive una storia inventata – stabilisce un patto con i lettori: tu mi leggi e io ti garantisco che questa storia, benché non sia vera, è verosimile, e ti divertirà, ti farà pensare, ti terrorizzerà e così via. Se ci pensate, questi patti arrivano a un assurdo: il romanziere, vale a dire colui che inventa delle storie e lavora con la finzione, non mente mai – egli non si è impegnato a raccontare la verità su un fatto, poiché quel fatto è inventato, dunque non deve essere verificato; l’autobiografo, invece, può mentire, perché non è detto che dica tutto intorno a un particolare fatto della sua vita. Un testo autobiografico può e deve essere verificato, ma qui entrano in scena alcuni fattori che possono allontanare il testo dalla verità: anzitutto, la memoria può essere fallace – uno scrive di un episodio della propria infanzia, ma sono passati molti anni, e il ricordo non è nitido, oppure è sbagliato: ho capito male una scena che ho vissuto e da tanti anni la custodisco nella memoria in modo distorto; ancora, ci sono ricordi, momenti, episodi di cui ci vergogniamo o che non abbiamo il coraggio di confidare nemmeno a noi stessi (come possiamo scriverne, allora? E se li omettessimo? Liberissimi di farlo, ma come la mettiamo con la questione della verità, del mettersi a nudo ecc.?); ancora, l’autobiografia è spesso intesa come la messa in scena spettacolare della propria vita: scriviamo di noi stessi per farci belli, o almeno migliori di quelli che siamo; infine, l’idea di scrivere i fatti fondamentali della nostra vita prevede che noi li ordiniamo, diamo loro un rapporto di causa-effetto, li guardiamo tutti in retrospettiva, giudicandoli secondo le conseguenze che hanno avuto: dunque, uno dei rischi dell’autobiografia è quello di rileggere la propria vita a ritroso, dandole un’interpretazione univoca. Anche se siamo onesti e votati a dire la verità come fece Rousseau, non esiste un racconto di sé che sia completamente puro. Ora andremo a vedere alcuni esempi di autobiografie e ne osserveremo il grado di autenticità, a cominciare da un grande capolavoro del Novecento costruito sul principio opposto delle Confessioni di Rousseau.  

L’Autobiografia di Thomas Bernhard

L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo, Un bambino: sono cinque libri, scritti tra il 1975 e il 1982, in cui Bernhard, grande scrittore austriaco, compone l’autobiografia dei primi vent’anni della sua vita. Ma attenzione: «Tutto nei miei libri è artificio» ha sempre detto di sé Bernhard, e ogni cosa di cui lui scrive è una rappresentazione, si svolge come su una scena. A proposito di questi cinque libri, Bernhard scrisse (in La cantina): «La verità, penso, la conosce solo l’interessato, ma lui stesso, nel momento in cui vuole comunicarla, diventa automaticamente un bugiardo. Tutto quello che si comunica può essere soltanto una falsificazione e una contraffazione, quindi sono sempre state comunicate soltanto falsificazioni e contraffazioni» e ancora, poco oltre, «non abbiamo mai comunicato nulla che coincidesse con la verità». Ma come? vi chiederete: uno scrive ben cinque libri autobiografici e già nel secondo dichiara che quello che contengono non è vero? È proprio per questo che l’Autobiografia è un’opera straordinaria: il Thomas Bernhard che gira per queste pagine, che cade dalla bici, si ammala di tubercolosi e ha un rapporto molto stretto con il nonno è solo in parte il vero Thomas Bernhard; quello che c’è in scena è un Thomas Bernhard personaggio, qualcuno che fa le stesse esperienze del bambino Thomas, ma le fa in modo diverso, soffermandosi molto su certi particolari che, nella realtà, non sono stati così importanti, spostando da un anno all’altro certi avvenimenti, inventando laddove la memoria non è d’aiuto, e soprattutto omettendo degli episodi chiave della vita dell’autore: su tutti, i tentativi di suicidio – di cui i cinque volumi non fanno menzione – e l’incontro con la compagna di una vita, Hedwig Stavianicek. Dunque Bernhard, consapevole del fatto che inevitabilmente nessuna autobiografia può dire la verità in modo completo ed esauriente, sceglie come principio guida dei suoi cinque libri di disattendere la verità e reinventa, omette, reimpasta, creando consapevolmente un falso.
Per leggere un’intervista a Thomas Bernhard in cui Thomas Bernhard dice che “Thomas Bernhard non si sa chi è” clicca qui
 

Le memorie, per lo più fasulle, di un librettista

Più o meno negli stessi anni in cui Rousseau teorizzava il suo mettersi a nudo e ne scriveva, cominciava a vivere una vita incredibile e piena di avventure tra l’Italia, l’Europa e New York uno dei più grandi librettisti che il mondo abbia avuto, nonché sacerdote, libertino, poeta e professore di lingua e letteratura italiana: Lorenzo Da Ponte, amico di Giacomo Casanova, con il quale condivise più di un’avventura, e passato alla storia come autore dei libretti d’opera per Le nozze di Figaro (1786), il Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790) di Wolfgang Amadeus Mozart. Insomma, Da Ponte fu un genio vitalistico, la sua vita è contrassegnata da fughe, tradimenti, amicizie con grandi personaggi del suo tempo, e poi da grandi amori e dall’emigrazione: nato nel 1749 dalle parti di Vittorio Veneto, morì a New York quasi novantenne, nel 1838. Appena arrivato in America cominciò a scrivere delle note biografiche, che si sarebbero in seguito trasformate nelle sue celebri Memorie – un’opera divertente e picaresca dove Da Ponte mente sistematicamente: pare che il motivo per cui cominciò a scrivere fu che, visto il suo passato tumultuoso, gli ambienti accademici statunitensi erano restii ad accoglierlo e a dargli un lavoro; redasse perciò una prima versione delle Memorie in cui, sostanzialmente, presentava sé stesso come una persona migliore e più affidabile di quanto in realtà fosse, e dove corresse, volgendoli a proprio favore, certi episodi della sua vita europea, non rivelò le proprie origini ebraiche e omise certi giudizi sprezzanti che personaggi importanti avevano pronunciato su di lui in Italia, in Austria e in Inghilterra. Ma soprattutto – e questo ha, dal nostro punto di vista, dell’incredibile – menzionò soltanto di passaggio e come distrattamente la collaborazione con Mozart, come se aver dato le parole a tre dei più grandi capolavori della musica di ogni tempo non fosse una cosa di grande importanza.
Per un profilo biografico (verosimile) di Lorenzo Da Ponte clicca qui
 

L’autobiografia di un’altra persona, o forse no

Nel 1933 venne pubblicato un libro che molti, ancora oggi, leggono perché è uno dei più bei ritratti della Parigi dell’epoca del cubismo, e i personaggi che si muovono tra le sue pagine sono Picasso, Hemingway, Matisse – tutti visti per così dire “dal vero” e ritratti molto da vicino da una persona che era loro amica. Questo libro ha per titolo Autobiografia di Alice Toklas e la cosa, fin qui, non sarebbe una notizia: Alice Toklas è stata una scrittrice americana che ha vissuto a lungo in Francia ed è stata segretaria, collaboratrice e compagna di vita di un’altra grande scrittrice americana che ha vissuto a lungo in Francia, Gertrude Stein; il punto è che l’Autobiografia di Alice Toklas non è stata scritta da Alice Toklas, ma da Gertrude Stein e che alcuni capitoli di questa autobiografia hanno per titolo, per esempio, Gertrude Stein a Parigi (1903-1907) e Gertrude Stein prima che venisse a Parigi. Insomma: Gertrude Stein, compagna di Alice Toklas, scrive un libro che finge di essere l’autobiografia di Toklas e che però contiene dei capitoli che parlano di Stein e, anzi, è in tutto e per tutto un libro il cui personaggio principale è Stein. Nel libro c’è un io narrante, una persona che racconta le vicende e dice “io”: è Alice Toklas, che è dunque personaggio e narratrice della propria autobiografia che però non è stata scritta da lei. È un’operazione straordinaria, vertiginosa: di fatto, Stein ha scritto della propria vita fingendo che a scrivere fosse la sua compagna, che è protagonista del libro quanto lei. Tutto ciò che abbiamo detto fin qui sul rapporto tra verità e menzogna, sull’attendibilità e sui trucchi vari attraverso cui chi fa la propria autobiografia si racconta, in questo libro diventa paradossale, inafferrabile. Sentite come il libro finisce: «Saranno sei settimane fa, Gertrude Stein mi dice: “Non mi sembra che abbiate nessuna intenzione di scrivere quell’autobiografia. Sapete quel che faccio? La scriverò per voi. La scriverò così semplicemente come Defoe scrisse l’autobiografia di Robinson Crusoe”. E così fece. È questa». Nell’edizione americana originale, che è corredata da alcune fotografie, segue un’immagine: la foto della prima pagina del manoscritto dell’Autobiografia di Alice Toklas, che di fatto, dunque, ricomincia non appena il libro finisce, in un gioco continuo in cui vero e falso, biografia e invenzione, autrice e personaggi si mescolano, si confondono e creano qualcosa di mai visto prima.
Per ascoltare un podcast che racconta la storia di Gertrude Stein e Alice Toklas clicca qui
  Crediti immagini Apertura: Lorenzo Da Ponte, Memorie, Vol. II, 1918 (Wikimedia Commons) Box: Rousseau con Madame Dupin, Illustrazione, Le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau (Wikimedia Commons)
page1-983px-Da_Ponte,_Lorenzo_–_Memorie,_Vol._II,_1918_–_BEIC_1797684.pdf
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