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La pandemia tra emergenza e normalizzazione

Il bilancio degli effetti economici della pandemia e le proiezioni per futuro continuano ad essere estremamente preoccupanti. Ma qualcosa sta cambiando: si è diffusa una maggiore consapevolezza della pericolosità unita a un desiderio fortissimo di riprendere il corso consueto della vita. Al tempo stesso, le spinte “sovraniste” sembrano aver perso qualche colpo e l’approvazione del cosiddetto Recovery Fund ha segnato un passo avanti molto significativo.
Trascorsa l’estate, è ancora estremamente difficile valutare le dinamiche e gli effetti complessivi della pandemia di Covid-19 in Italia, in Europa e nel resto del mondo.  

I numeri della pandemia

I dati del contagio sono assai preoccupanti. A metà maggio 2020, i casi totali accertati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) erano circa 4 milioni e mezzo. Oggi – 22 settembre – sono quasi 31 milioni. I morti, allora poco più di 310.000, sono attualmente poco meno di un milione. È poi impressionante – almeno stando ai numeri più recenti – la velocità con cui il virus continua a espandersi su scala mondiale: negli ultimi 7 giorni i casi accertati sono aumentati di quasi 2 milioni di unità (270.000 nelle ultime 24 ore) e i decessi di quasi 37.000 (4.700 nelle ultime 24 ore). I paesi a oggi più colpiti sono gli Stati Uniti (oltre 6 milioni e 700.000 casi e quasi 200.000 morti), l’India (quasi 5 milioni e mezzo di casi e oltre 87.000 morti) e il Brasile (4 milioni e mezzo di casi e poco più di 135.000 morti). Tra i paesi europei svettano la Spagna (640.000 casi e 30.000 morti), la Francia (432.000 casi e oltre 31.000 morti) e il Regno Unito (quasi 400.000 casi e 42.000 morti). Nella classifica dell’OMS l’Italia, uno dei paesi maggiormente flagellati nelle prime fasi della pandemia, si colloca al ventesimo posto, con quasi 300.000 casi e 35.000 morti circa. La Cina, dalla quale tutto sembrerebbe essere partito, è al trentanovesimo posto, con circa 91.000 contagi e quasi 4.800 morti. Si tratta, naturalmente, di dati in costante aggiornamento e che vanno presi con le pinze per svariate ragioni, prime fra tutte il numero delle rilevazioni del virus, le loro differenti modalità da paese a paese e – dato da non trascurarsi – una diversa attitudine alla trasparenza dei vari governi. Lasciano perplessi, per citare un solo esempio, i dati relativi al continente africano, dove – tolta l’eccezione del Sudafrica (660.000 contagi e circa 16.000 morti accertati) – la gran parte degli Stati registra un numero davvero molto basso di contagiati e di decessi.  

Tra ripartenze e nuovi lockdown

Al di là di tutto, è chiaro però che la tempesta non è affatto passata. Essa, al contrario, parrebbe nuovamente rafforzarsi con il ritorno, sia pure lento e prudente, a una vita relativamente “normale”: con la ripresa generalizzata delle attività lavorative e commerciali (particolarmente intensa durante l’estate nei settori legati al turismo, alla ristorazione e al divertimento e all’enorme catena di attività ad essi legati) e poi con la riapertura di scuole e università. Con l’arrivo dell’autunno, dicono molti esperti, l’emergenza potrebbe inoltre ulteriormente aggravarsi per gli stessi meccanismi che favoriscono la diffusione delle “normali" influenze di stagione, in primo luogo la permanenza prolungata in luoghi chiusi, che aumenta di gran lunga le occasioni e le possibilità di contagio. Il tutto, mentre procede relativamente al rallentatore, e con molte battute d’arresto, la ricerca e la sperimentazione di un vaccino efficace, che dovrà poi essere prodotto e distribuito in massa, non è ancora chiaro da chi e a chi, e a quali costi. Da qui i ripetuti allarmi lanciati recentemente dall’OMS. In queste condizioni – senza che sia chiaro fino in fondo se il virus abbia perduto o meno la sua carica contagiosa – si stanno nuovamente moltiplicando su scala locale le “zone rosse” di confinamento e torna a crescere la tentazione di ripristinare lockdown a livello nazionale. Una misura già adottata – tra molte proteste – da Israele e a cui ricorrerà a breve il Regno Unito. Il rischio è che una pandemia rafforzata possa tornare a esercitare una nuova e assai pericolosa pressione sulle strutture sanitarie di tutto il mondo, anche nelle regioni più sviluppate, come del resto è già successo nei mesi scorsi.  

Scenari economici e politici

Anche il bilancio degli effetti economici della pandemia e le proiezioni per futuro continuano ad essere estremamente preoccupanti. Rispetto alle previsioni di aprile – contrazione del Pil mondiale di 3 punti percentuali – a giugno il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha corretto al ribasso le sue stime ipotizzando per il 2020 una decrescita del 4.9 dell’economia globale, dell’8.0 delle economie avanzate e del 3.0 dei mercati emergenti e delle economie in via di sviluppo, sia pure a fronte di una possibile relativa ripresa nel 2021. Nelle scorse settimane, diverse agenzie di rating hanno ulteriormente aggiornato in negativo il quadro, chiamando in causa soprattutto la contrazione degli investimenti, l’aumento della disoccupazione e il crollo dei consumi. La sfida continua dunque a essere colossale. Si tratta di una crisi «come nessun’altra», nella definizione del FMI, che rende assai incerte, a tutti i livelli, le prospettive di ripresa e lascia drammaticamente sul piatto della bilancia da un lato le ragioni della salute pubblica e dall’altro quelle dell’emergenza economica e sociale. In questo quadro, molte cose sono rimaste esattamente come qualche mese fa. Perdurano le spavalderie ondivaghe dei governi populisti – gli Stati Uniti di Trump e il Brasile di Bolsonaro in testa – che stanno avendo costi molto elevati per la popolazione in termini di contagi e di vittime. Continuano a rimanere poco trasparenti i regimi autoritari, in special modo la Cina, della cui reale situazione oggi sappiamo molto poco e in maniera frammentaria. Resistono e talora s’impennano gli egoismi e le chiusure nazionali, soprattutto nei paesi meno colpiti dalla pandemia. E vanno anche moltiplicandosi – in America, in Europa e nella stessa Italia – le manifestazioni e i raduni dei movimenti “no mask” e “no vax” che, pur significativi, restano tuttavia complessivamente marginali.  

Qualcosa è cambiato

Qualcosa, tuttavia, è forse cambiato. È opportuno richiamare in proposito l’attenzione su due dati molto diversi ma entrambi in una certa misura confortanti. Il primo è che, quanto meno nei paesi già flagellati dal virus, tra questi l’Italia, si è diffusa – al netto di alcuni eccessi «di stagione» – una maggiore consapevolezza della pericolosità della pandemia unita però a una spinta fortissima a riprendere il corso consueto della vita e del lavoro. Ne è un esempio lampante la scommessa complicatissima, molto rischiosa ma speriamo non azzardata della riapertura delle scuole e delle università, che costituisce uno stimolo potentissimo per la normalizzazione della vita familiare, lavorativa e sociale non solo dei giovani ma di tutti. Al tempo stesso, ed è il secondo dato, quanto meno in Europa le spinte “sovraniste” sembrano aver perso qualche colpo. Beninteso, esse continuano a essere molto potenti e minacciose. E tuttavia, la messa in cantiere e poi l’approvazione, a luglio, del cosiddetto Recovery Fund – di una quota davvero consistente (750 miliardi di euro) di finanziamenti e di concessioni a fondo perduto per affrontare la crisi generata dalla pandemia soprattutto nei paesi più colpiti (tra i quali l’Italia) – ha segnato un passo avanti molto significativo nella direzione di una più matura e meno egoistica integrazione continentale, indicando la strada di un modello cooperativo che può essere il volano di ulteriori sviluppi. Il Plan ha incontrato – com’è noto – la fiera resistenza dei paesi cosiddetti “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Repubbliche baltiche). Ma alla fine, grazie soprattutto alla mediazione di Francia e Germania, è stato approvato dal Consiglio europeo del 17-21 luglio. Sarà sicuramente molto difficile farlo decollare in concreto nei singoli paesi. Lo spettro di una politica fatta di ringhiose difese delle proprie frontiere – una politica del tutto inadeguata rispetto agli imperativi di una crescente interdipendenza planetaria – almeno per un attimo sembra essersi dissolto. Il che rappresenta senz’altro, in mezzo a una situazione catastrofica, una buona notizia. Crediti immagini: AperturaPixabay Box: Pixabay

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