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Filosofia

La speranza come antidoto alla disumanizzazione

Nel Novecento i filosofi tedeschi Ernst Bloch ed Erich Fromm hanno approfondito il concetto di speranza derivante dalla filosofia di Karl Marx. Pur lasciando da parte alcuni capisaldi della filosofia marxista, i due mantengono la visione della speranza come praxis, antidoto agli eccessi e ai pericoli delle utopie e del nichilismo.

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In epoca moderna, il pensiero di pochi filosofi ha rappresentato una frattura così netta e dirompente come quello di Karl Marx (1818-1881), che è diventato per i suoi contemporanei e successori un punto di riferimento imprescindibile con cui confrontarsi, sia per coloro che si sono inseriti nella sua scia sia per chi l’ha considerato alla stregua del sommo male da combattere.

La filosofia stessa muta la propria missione nel pensiero di Marx: non è, e non può essere, semplice speculazione, ma è praxis, azione, come esprime chiaramente nell’undicesima Tesi su Feuerbach (1845):

«I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo».

Questa tensione verso un cambiamento, questa speranza di costruire una realtà in cui le disuguaglianze sociali siano superate - in cui sia l’essere umano che la società recuperino rapporti autentici, non più definiti dall’oppressione, dallo sfruttamento e dal consumo – definiscono la base su cui Marx sviluppa le proprie teorie. Dal riconoscimento di un mondo segnato da ingiustizie, Marx indica una via d’uscita molto concreta: la rivoluzione, il cui soggetto attuatore è il proletariato, unica classe senza proprietà e quella che più di tutte subisce la condizione di alienazione.

Il concetto di alienazione

In senso lato, per alienazione si intende quello stato di smarrimento e di sradicamento dal proprio sé più autentico, tipico dell’uomo moderno e contemporaneo. Per Marx l’alienazione è strettamente legata allo sfruttamento degli esseri umani nella società capitalistica. Lavoratori e lavoratrici sono alienati rispetto agli oggetti che producono (perché pur producendoli non appartengono a loro ma al capitalista che ne farà un profitto); lo sono rispetto all’attività lavorativa stessa (che è esclusivamente fatica, senza gioia e soddisfazione); sono alienati rispetto alla propria identità (in quanto il loro lavoro è ripetitivo, frustrante, malpagato, privo di ogni aspetto creativo).  L’alienazione non riguarda però solo gli oggetti, l’attività lavorativa e sé stessi, ma in un simile contesto finisce per investire anche il rapporto con gli altri, determinando l’abbrutimento dell’essere umano che perde tutte le qualità che lo rendono tale.

La speranza come «capacità anticipante». L’opera di Ernst Bloch

Diversi decenni dopo la morte di Marx, ma sempre nel solco del suo pensiero, un altro filosofo tedesco, Ernst Bloch (1885-1977), si misura con il tema della speranza. In questo caso, il proposito è esplicito, grazie a un’opera monumentale in tre volumi intitolata per l’appunto Il principio speranza, a cui Bloch inizia a lavorare negli anni Trenta durante il suo esilio negli Stati Uniti, dove si  rifugia all’avvento del Nazionalsocialismo in Germania.

Bloch impiegherà circa vent’anni a completare questa impresa, anni in cui alle ingiustizie sociali già denunciate da Marx si aggiungono le conseguenze di due guerre mondiali. L’opera di Bloch si configura anche come una sorta di enorme enciclopedia dei temi utopistici rintracciabili sia nella vita di tutti i giorni sia nei diversi ambiti del sapere, dalle arti visive alla geografia, dall’architettura alla medicina, passando per la musica e la letteratura, la mitologia e la cultura popolare.

Seppur disilluso della possibilità politica di realizzare in un futuro indefinito il superamento delle classi sociali, così come evocato da Marx, Bloch si fa portavoce di un’idea di speranza che si incardina nella tradizione marxista come approccio e come contenuto.

Lungi dal considerarla un atteggiamento sentimentale cieco e consolatorio orientato in avanti, per Bloch la speranza è prima di tutto l’attitudine di osservare il presente, cogliendo in esso tutte le potenzialità che gli sono insite. In questo senso, egli parla di «capacità anticipante dell’uomo», la capacità di cogliere nella nostra realtà le molteplici possibilità concrete e oggettive di cambiamento. È tuttavia da evidenziare come Bloch non ritenga che la storia si dispieghi in modo lineare, ma che le tendenze e i percorsi possibili siano molteplici e non necessariamente rivolti al progresso.

La speranza in Bloch diventa così un esercizio costante, attivo e costruttivo, che ha l’obiettivo di liberare gli esseri umani da ogni forma di asservimento e renderli sempre più capaci e consapevoli nel rendere la propria esistenza piena e autentica. A questo proposito, Bloch tenta di smascherare la finta speranza che i suoi contemporanei ripongono nella sempre più ammaliante società dei consumi e in quei piccoli piaceri anestetizzanti a poco prezzo venduti dalla pubblicità.

Bloch non condivide l’atteggiamento di critica, quasi altezzosa, di alcuni dei suoi colleghi della Scuola di Francoforte nei confronti della gente comune, ma è convinto che questi piaceri costituiscano soltanto uno strumento per poter superficialmente sopportare una condizione umana ancora alienata, senza permettere una più profonda realizzazione dell’esistenza umana.

Si osserva così che il concetto di speranza in Bloch mantiene una netta distanza tanto da approcci nichilisti, passivi e rassegnati, quanto dalla cieca fiducia in un orizzonte futuro di salvezza. E pur abbandonando certi tratti marxisti, come la certezza nella vittoria del proletariato con il conseguente superamento delle classi, Bloch mantiene la convinzione che la filosofia non sia contemplazione, ma azione e che il messaggio del «marxismo autentico» risieda nella «promozione dell’umanità, contro l’alienazione, la disumanizzazione, la reificazione, il divenir merci». (Il principio speranza, p. 1567)

Erich Fromm e la speranza come «stato di essere»

Il tema dell’alienazione dell’essere umano nella società moderna e contemporanea e di come costruire un orizzonte in cui egli possa recuperare la sua più vera identità e natura è rintracciabile in molti filosofi di tradizione marxista del Novecento. Emblematico in questo senso è il lavoro di Erich Fromm (1900-1980), anch’egli studioso tedesco, vicino al gruppo della Scuola di Francoforte, che coniuga nelle sue analisi l’elemento marxista con una formazione psicologica di stampo freudiano.

Il suo saggio La rivoluzione della speranza. Per costruire una società più umana (1968) si apre con la constatazione di come un nuovo «spettro» si stia affermando: non si tratta più di comunismo o fascismo, ma della sempre più evidente riduzione dell’essere umano a elemento passivo e senza vita dell’ingranaggio sociale.

Per Fromm è la speranza, intesa come «elemento psichico che accompagna la vita e lo sviluppo», a essere atteggiamento imprescindibile nel superamento di questa crisi di identità. Una speranza che non deve essere confusa né con il desiderio (consumistico) né con la salvezza (orizzonte teologico), né con la rivoluzione (orizzonte politico). La natura della speranza è per Fromm «paradossale», perché essa non consiste nella passiva attesa, ma neppure in una irrealistica forzatura. Eliminare la speranza significa per l’essere umano sia precipitare in una condizione di distruzione e di violenza sia accontentarsi di quello che si può ottenere facilmente, rinunciando a sognare quello che appare irraggiungibile.

Nella società contemporanea il comportamento umano è guidato da una serie di valori inconsci: la proprietà, il consumo, la posizione sociale, il divertimento. Si assiste così anche a una scissione tra l’ego «statico e immobile, [che] si rapporta al mondo in termini di oggetti da possedere» e l’Io «centro organizzatore attivo della struttura di tutte le mie attività reali o potenziali». Torna in Fromm, come in Bloch, l’idea che la disumanizzazione consista nella passività, una passività che si manifesta non solo nel contesto lavorativo e sociale, ma che è divenuta talmente pervasiva da investire anche il tempo libero.

Per recuperare la sua più autentica identità, e la sua libertà, l’essere umano deve perciò recuperare esperienze emotive fondamentali quali la tenerezza, la compassione e l’empatia. Per Fromm, infatti:  

«lo sviluppo dell’uomo richiede la capacità di trascendere la ristrettezza del suo ego, della sua avidità, della suo egoismo, della sua separazione dal prossimo e, quindi, della sua fondamentale solitudine», in quanto «questo superamento è la condizione di essere aperti e collegati al mondo […], è la base della capacità dell’uomo di gioire per tutto ciò che è vivo, di manifestare le sue facoltà nel mondo che lo circonda» (La rivoluzione della speranza, p. 159).


Crediti immagini: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto Stato. Olio su tela, 1901. Milano, Museo del Novecento (Wikipedia)

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