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Andare un po’ più in là

La letteratura e i confini: Dante, con il suo Ulisse, ha scritto la grandezza - ma anche la colpa - di chi li infrange, Charles Darwin li ha materialmente superati per dare via a una rivoluzione scientifica, Xavier De Maistre e Jack London li hanno visti come incredibilmente prossimi ad alcuni loro personaggi. Luis Buñuel e Stanley Kubrick, in modo diverso, li hanno messi sul grande schermo in "L’angelo sterminatore" e "2001 Odissea nello spazio"
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Dante punisce Ulisse e crea un canone. Succede nel canto XXVI dell’Inferno, dove scontano la loro pena i consiglieri di frode. Dante vede due fiammelle, condannate ad ardere in eterno, e impara da Virgilio che si tratta di Ulisse e Diomede. Il primo, artista dell’inganno oltre che del ritorno, racconta ai due poeti la storia della sua morte: tornato a Itaca, egli vi rimase per un certo tempo finché, preso nuovamente dal desiderio di viaggiare e di conoscere, si imbarcò di nuovo puntando la prua verso occidente. Giunse alle Colonne d’Ercole e le superò, sfidando l’ira di Dio, che aveva imposto agli uomini di non varcare quel confine: ma Ulisse, spinto da un insopprimibile desiderio di conoscenza («fatti non foste a viver come bruti» dice ai suoi uomini, impauriti all’idea di navigare oltre i limiti del mondo conosciuto, «ma per seguir virtute e canoscenza»), fa vela al di là di quella soglia e si perde, trovando la morte in un naufragio ai piedi del monte del Purgatorio. Di Ulisse, che Dante punisce per i raggiri e gli inganni di cui fu costellato il suo primo viaggio (su tutti il cavallo di Troia), lo scrittore fiorentino mette in risalto la superbia, l’idea di poter sfidare Dio: la ragione, l’intelligenza e l’astuzia non sono nulla senza la grazia e la fede, e il confine delle Colonne d’Ercole è il luogo fisico oltre il quale i comuni mortali non devono andare; ciò che c’è al di là delle Colonne non ha più a che vedere col mondo umano, ma col divino.

La Commedia illustrata dal grande Gustave Dorè: http://www.worldofdante.org/gallery_dore.html

Oltre sei secoli dopo Dante, un altro Ulisse varca i confini dell’umana conoscenza e percezione: è il 1968, il regista americano Stanley Kubrick si inventa il più grande film di fantascienza di tutti i tempi e lo intitola 2001 – Odissea nello spazio. Vi si racconta la caccia, durata millenni, a un grande e misterioso monolito nero che compare per la prima volta in epoca pre-umana e poi, per secoli, vaga nello spazio, di tanto in tanto mostrandosi agli uomini. Gli astronauti, tra loro il comandante David Bowman, lo rintracciano su Giove, lo avvicinano, tentano invano di sondarne il mistero. Nell’ultima, metafisica parte del film, montata a ritmo del valzer Sul bel Danubio blu di Johann Strauss e gonfia di suoni e immagini psichedeliche, Bowman raggiunge finalmente il monolito al di là del tempo e dello spazio. E cosa c’è, oltre queste nuove Colonne d’Ercole? Una stanza, dove l’uomo contempla la propria vita in un unico istante: si vede vecchio, bambino, e infine rinasce. Ha toccato da vicino il punto più alto della conoscenza, è andato oltre se stesso e oltre l’uomo. Egli ora è un feto che guarda la terra da una dimensione ulteriore.

 

Il confine più ampio: il mondo.

Dunque l’uomo si pone dei limiti, mette dei confini con, in fondo, la sotterranea consapevolezza che, un giorno o l’altro, li supererà o proverà a farlo per sapere “cosa c’è di là”. Nel 1831, un giovanissimo naturalista britannico si imbarcò su un brigantino e partì per un viaggio intorno al mondo che doveva durare due anni e che invece ne durò cinque. Il Beagle, questo il nome della nave, viaggiò lungo le coste dell’Africa, attraversò l’Atlantico, circumnavigò il Sud America, raggiunse l’Oceania, quindi l’Indonesia, il Sud Africa e tornò in Gran Bretagna dopo aver di nuovo fatto tappa in Brasile. A bordo, Charles Darwin – questo il nome del giovane scienziato – annotò quotidianamente le impressioni di viaggio, fece resoconti sulla flora e la fauna incontrate nella parte meridionale del globo, analizzò e raccontò i costumi delle popolazioni con cui era venuto in contatto. Nel 1839, tre anni dopo il suo ritorno a casa, pubblicò quello che probabilmente, insieme al Milione di Marco Polo, è il più straordinario libro di viaggio mai scritto, il Viaggio di un naturalista intorno al mondo. Darwin non è il primo scienziato ad essersi imbarcato in un’impresa del genere: molti prima di lui avevano girato il mondo ed esplorato terre lontane. Tuttavia, è durante il viaggio del Beagle che in lui nascono i germogli di quella che sarà la teoria dell’evoluzione delle specie e della selezione naturale: «Non v’è dubbio» scrive Darwin nella sua autobiografia «che la mia mente si sviluppò con l’attività esercitata durante il viaggio. Ciò mi fu confermato anche da una frase di mio padre […] quando tornai dal viaggio, appena mi vide si volse alle mie sorelle dicendo: “Guardate, la forma della sua testa è completamente cambiata”». Nel 1831 era partito un ragazzo, cinque anni più tardi tornava Charles Darwin.

 

Il confine più ristretto: la mia stanza (o la mia cella)

Ma, almeno in letteratura, non sempre è necessario varcare frontiere e incontrare nuovi mondi per arrivare alla conoscenza e cambiare se stessi: pensate a Xavier De Maistre, scrittore francese vissuto tra il 1763 e il 1852. È passato alla storia della letteratura per aver scritto, nel 1794, un romanzo stranissimo, il Viaggio intorno alla mia camera. Confinato per oltre quaranta giorni in una stanza il cui lato misura trentasei passi, con la sola compagnia di una cagnetta e di un servitore, il narratore – che a dire il vero è anche piuttosto pigro, perché non ama granché alzarsi dalla sua poltrona – letteralmente viaggia da un oggetto all’altro, percorre ogni centimetro del pavimento, e osserva quadri, specchi, arredi. Per ognuna di queste cose, in sé piccole, insignificanti, c’è un aneddoto, un’osservazione filosofica, un piccolo mondo inventato o rammentato che è una storia. La stanza di De Maistre diventa così un mondo in miniatura dove c’è tutto: l’amore, l’amicizia, la morte e anche il conflitto interiore del protagonista, che non manca di scindersi in due (l’anima e il corpo) e di battibeccare con “l’altra parte” di se stesso. Viaggia da fermo anche un altro straordinario protagonista di un romanzo, questa volta dello scrittore americano Jack London (1876-1916): è Darrell Standing, che in Il vagabondo delle stelle (1915) è in cella d’isolamento, condannato a morte per omicidio e spesso trattenuto in una camicia di contenzione. Ebbene, non esiste romanzo di viaggio più ricco e variegato di questo, perché Standing, oppresso dalla propria condizione, rompe gli argini e vaga, immagina, esce dal proprio corpo e vive in epoche e luoghi a lui sconosciuti. È di volta in volta un gentiluomo francese, un bambino, un sacerdote, uno schiavo al tempo di Cristo, un naufrago. Egli, dice, si reincarna ogni volta e vive le loro vite. Perciò non ha paura dell’impiccagione: ciò che lo aspetta dopo che avrà varcato la soglia della morte non è che un’altra vita da provare a vivere.

Marco Paolini legge Jack London: https://www.youtube.com/watch?v=Nsqg9MelnzA

 

Il confine immaginario

Chiudo con un film, ambientato in una stanza, ma che non ha molto in comune con De Maistre. Il racconto è in apparenza molto semplice: una cena in un ambiente altoborghese. Si chiacchiera, si ride, succedono a dire il vero anche cose bizzarre (ci sono per esempio un orso e delle pecore che girano per il palazzo), ma tutto sembra andare liscio, salvo che gli ospiti pare non se ne vogliano andare. Si fa notte fonda, nessuno esce dalla sala da pranzo, qualcuno si addormenta perfino. La mattina, appena svegli, tutti si accorgono che per qualche strano motivo non possono uscire dalla stanza: è come se ci fosse una barriera invisibile che li divide dal resto del mondo. Passano le ore, le azioni dei personaggi si fanno ripetitive, c’è un morto, ci sono dei tentativi di liberazione dall’esterno, ma niente, dalla sala non si esce, si può soltanto rimanere lì e provare a tenere sotto controllo l’isteria che piano piano prende tutti. Questo incubo kafkiano si intitola L’angelo sterminatore (1962), e il regista è Luis Buñuel, autore surreale e crudele. Molti dicono che la barriera che separa i protagonisti dal resto del mondo sia un confine di classe: è la borghesia che ormai vive separata dal mondo, non lo vede e non lo sa capire. O non le interessa farlo. Eppure, vedendolo, si ha la sensazione che ci sia qualcosa di più e di diverso, un senso di angoscia e di horror vacui, e insieme un’illogicità che lo rende una perfetta metafora di qualcosa. Ma cosa? Una rinascita come in Kubrick? Certo che no. E allora? Risponde Buñuel in persona: «Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita, e, come essa, soggetto a molte interpretazioni. L'autore dichiara che non ha voluto giocare su dei simboli, almeno coscientemente. Forse la migliore spiegazione per L’angelo sterminatore è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna».

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