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Le illusioni di un consumatore
Scritto tra il 1835 e il 1843, Illusioni perdute è probabilmente il migliore (così perlomeno la pensava Proust) tra i moltissimi romanzi che scrisse Honoré de Balzac. Vi si raccontano l’ascesa e la caduta di Lucien Chardon, un giovane provinciale che arriva a Parigi con sogni (letterari) di gloria in cui, per larghi tratti, è riconoscibile lo stesso Balzac – la cui vita, come si è detto, fu costellata di debiti, contratti per mantenere un tenore di vita che non si poteva permettere e spesso ripagati grazie agli introiti della sua furibonda attività di scrittore: la Commedia umana, il grande progetto letterario balzachiano, comprende infatti quasi 140 tra romanzi, racconti, novelle, saggi, studi; è una produzione che non ha quasi eguali nella storia della letteratura e che, al di là del mastodontico disegno, fu portata tenacemente avanti anche per questioni di guadagno. Illusioni perdute è un romanzo che trasuda denaro. Patologicamente incapace di resistere ai propri desideri, Lucien è un edonista che soffre di una sorta di bulimia: vuole tutto e lo vuole ora. Successo, riscatto sociale, lusso, soldi sono le chimere che insegue soprattutto nella parte parigina del romanzo. Parigi è una città ricca, e sono gli anni in cui scoppia il fenomeno della moda: tutto luccica, tutto è effimero ma bello, sensuale, e il provinciale Lucien vuole farne parte – è il primo autentico consumatore in senso moderno della storia della letteratura. Parallelamente alla storia della caduta di Lucien corre la vicenda dell’amico David, che nel corso del romanzo scopre un sistema di produzione della carta a basso costo. Le vite dei due ragazzi sono costellate di pagamenti, cedole, e pagine intere del romanzo sono dedicate ai conti che, ora Lucien, ora David, sono costretti a fare il primo per continuare nella propria ricerca del successo, il secondo per finanziare i propri progetti. Finché i debiti travolgono i sogni di gloria di Lucien e lo costringono a tornare all’ovile, con propositi suicidi. Sulla strada per Angoulême, il suo paese natale, Lucien incontra però Carlos Herrera, un diplomatico spagnolo omosessuale che convince il ragazzo di essere l’unico che può aiutarlo a ottenere le luci della ribalta. Alla promessa aggiunge un particolare: gli offre del denaro: «Vi manterrò con mano possente sulla strada del potere, tuttavia vi prometto una vita di piaceri, di onori, di feste continue… il denaro non vi mancherà mai». «Padre mio, sono vostro» risponde Lucien. La seconda vita parigina di Lucien, Balzac non l’ha raccontata nelle Illusioni perdute. Lo ha fatto in un altro grande romanzo, scritto tra il 1838 e il 1847: Splendori e miserie delle cortigiane.
Clicca qui per leggere un articolo sulla vita e il progetto letterario di Balzac (da Girodivite.it)
«Un mattatojo per la povere bestie»
È nell’Ottocento che, con l’ascesa definitiva del mondo borghese, il denaro entra nell’immaginario. In Italia, a inquadrare il problema fu sorprendentemente un poeta che siamo soliti considerare vago, etereo: Giacomo Leopardi. Nei Pensieri, infatti, si trova scritto che «[…] i politici antichi parlavano sempre di costumi e di virtù; i moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta». L’uomo, rileva Leopardi, è diventato ciò che possiede. O anche ciò che cerca di possedere, si direbbe, perlomeno a scorrere quella letteratura che nel corso degli ultimi due secoli si è occupata del rapporto tra l’uomo e il denaro. In Il fu Mattia Pascal, capolavoro che Luigi Pirandello scrisse nel 1904, Mattia nota in una vetrina di Nizza un manualetto, un “metodo” per vincere alla roulette. È ovvio che un metodo non esista, ma egli ne è irresistibilmente attratto, compra il libriccino e va al casinò di Montecarlo. In questo «mattatojo per povere bestie», Mattia all’inizio vince. Lo prende presto una frenesia, una fregola incontrollabile, punta continuamente denaro, vince, perde, perde ancora fino a stordirsi, a non capire più cosa sia il mondo reale. Il demone del gioco è uno dei grandi temi letterari otto e novecenteschi, dalla Dama di picche di Puškin (1834) a Gioco all’alba di Arthur Schnitzler (1927), da Il giocatore di Dostoevskij (1866) a Ventiquattro ore nella vita di una donna di Stefan Zweig (anch’esso del 1927). Che cosa attira, tanto, del gioco d’azzardo? La potenza del caso e la rovina, l’idea che la vita di un uomo, le sue speranze, possano essere messe nelle mani della fortuna; sono tutti, sempre, romanzi disperati, popolati di gente sull’orlo di una crisi definitiva, governata dal bruciante desiderio di ricchezza e a volte persino consapevole che quella del gioco è una malattia.
Il gioco d'azzardo in letteratura. Clicca qui per ascoltare un podcast (da RSI.ch)
Era un giocatore incallito Fëdor Dostoevskij, che per anni consumò le sue misere fortune nei casinò dell’Europa centrale. Un altro grande scrittore russo dell’epoca, Ivan Turgenev, economicamente più fortunato di lui, gli prestò spesso del denaro che Dostoevskij non sempre restituì. La roulette era per lui un’attrattiva irrinunciabile, benché fosse consapevole dell’abbrutimento a cui si abbandonava giocando. Sconfitte, banchi dei pegni, usurai popolano i suoi romanzi come la sua vita, spesa quasi interamente a rincorrere finanziamenti e prestiti e a fuggire dai creditori. Dostoevskij raccontò tutto questo in Il giocatore: è la storia di una caduta, quella di Aleksej, evidente alter ego dell’autore, perso tra le roulette della fantomatica città tedesca di Roulettenburg (mentre il nome della città dove Dostoevskij si rovinava era Baden-Baden). Curioso è il fatto che il un romanzo fu scritto per un estremo bisogno di soldi in soli 25 giorni nell’ottobre del 1866. Per onorare un contratto-capestro con l’editore Stellovskij (Dostoevskij, sempre indebitato, aveva firmato un accordo che prevedeva la consegna di un romanzo inedito a Stellovskij entro il primo novembre di quell’anno: se non avesse rispettato la scadenza, l’editore avrebbe avuto il diritto di pubblicare tutte le opere future dello scrittore senza pagare nessun compenso). Così Dostoevskij assume una stenografa, a cui detta Il giocatore in presa diretta, quasi inventandoselo giorno per giorno. È un romanzo breve, imperfetto, pieno di riferimenti autobiografici. Anna Grigorevna Snitkina, la stenografa, diventerà l’anno successivo moglie dello scrittore.
Anna Grigorevna scrisse uno splendido libro sulla sua storia con Dostoevskij: "Dostoevskij mio marito" http://www.archiviostorico.info/libri-e-riviste/6745-dostoevskij-mio-marito
Tre croci
L’economia, il denaro, i debiti, diventano dunque un motore narrativo fortissimo e i romanzi dell’Otto e Novecento lo mettono spesso al centro delle loro storie. Finisce in galera per non aver pagato delle cambiali il Picwick di Dickens (Il circolo Picwick, 1836), la “roba” è al centro dei pensieri e delle catastrofi che si abbattono sui personaggi verghiani. Ma è forse Tre croci, che Federigo Tozzi pubblicò nel 1918, il romanzo che meglio racconta il disastro economico di una famiglia. È la storia dei fratelli Gambi, tre senesi goderecci che lavorano, poco onestamente, nel settore dell’antiquariato. Mantengono il proprio stile di vita firmando cambiali false. Lo scandalo si scopre, tutta la città ne parla: se il giocatore dostoevskiano si muoveva all’estero e viveva a Pietroburgo, una grande città dove è facile rimanere anonimi, i Gambi vivono in una città piccola, dove tutti conoscono tutti. Lo scandalo della truffa delle cambiali corre presto di bocca in bocca e li travolge: Giulio, il primo fratello, si suicida per la vergogna e per paura delle conseguenze penali del suo gesto; Niccolò ha un colpo apoplettico; Enrico viene cacciato di casa e muore nella più totale povertà.
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Crediti immagini:
Apertura: "spin", di conorwithonen (flickr)
Box: Ritratto di Fëdor Dostoevskij del 1872 ad opera di Vasilij Perov, Mosca, Galleria Tret'jakov. (Wikipedia)