« [guardia, rivolgendosi al re]— C’è un Italiano all’ingresso che vi vuole parlare».
« [re]— Come fai a sapere che è italiano?».
« [guardia]— Invece della piuma ha uno spaghetto sul cappello».
Questo scambio di battute che accompagna un’icastica striscia di B. Parker e J. Hart (dalla serie del Mago di Id) tocca un punto nodale della storia culturale dei gruppi umani: la costruzione, la definizione, il consolidamento di una identità (etnica e sociale) anche – consapevolmente o meno – attraverso la sottolineatura delle abitudini alimentari.
Il consumo di particolari tipi di cibo e/o bevanda ha indotto (e induce) il conio di definizioni stereotipe d’impronta etnica, dal tono spesso dispregiativo. Richiamo a puro titolo d'esempio qualche slogan tutt'oggi corrente: i Vicentini sono “mangiagatti” (vero o no che sia il dato); i Tedeschi sono "crucchi" (< croat. kruh, “pane”), gli Italiani, ovviamente, “spaghetti” (dispensiamoci per questa volta il mandolino).
In realtà la valutazione di segno positivo o negativo del consumo di un certo tipo di cibo dipende dall'osservatore, dal suo punto di vista, dal suo referente oggettivo: se la definizione è elaborata all'interno di un gruppo in riferimento a se stesso, solitamente è di segno positivo, se in riferimento ad altri, vale per lo più come stigmatizzazione in negativo.
Guardiamo la questione in prospettiva storica. Le abitudini alimentari hanno funzionato spesso come marcatori di una condizione di 'civiltà' a fronte di una di 'non-civiltà': il consumo di un certo tipo di cibo è stato assunto come linea di demarcazione tra un "noi = cultura" e un "loro = stato selvaggio".
Così è stato per i Sumeri in raffronto alle tribù nomadi delle montagne: nella documentazione cuneiforme si legge «Martu della montagna, che non conosce orzo», «Martu, gente ... che mangia carne cruda», «Sua ... che non sa fare offerta di farina», «i loro [scil. dei nomadi] cuori non conoscono pane di forno». In Esiodo, Opere e giorni, in relazione alla stirpe di bronzo, ai vv. 146-147, a esprimere la caratterizzazione della loro natura violenta e disumana, si legge: «... né pane / mangiavano ...»; in Odissea IX 190-191, a sottolinearne la totale alterità rispetto alla dimensione dell'umano civilizzato, si dice del Ciclope «... né somigliava / a uomo che mangiasse pane » (e sempre il Ciclope, nelle Troiane di Euripide, al v. 436, è caratterizzato dall'epiteto omobros, "che mangia carne cruda": ancora una volta la sua mostruosità è definita dichiarandone l'abnorme tipo di dieta alimentare). Nella cornice di riferimento culturale epica, è evidente che l’essere umano civilizzato è quello che consuma siton, "grano" e quindi gli alimenti ricavati dal grano, "farina", "pane" (cfr. Od. VIII 222 = IX 89; cfr. X 101).
Giulio Romano, "Polifemo", affresco. 1528, Mantova, Sala di Psyche, Palazzo Tè. (via Wikimedia Commons)
Tirando le somme: nei passi rapidamente discussi (ma altri se ne potrebbero aggiungere) la menzione del consumo o meno di cereali (anche in forma di farina e/o pane) risulta indicare un livello di civiltà che contrappone implicitamente uno stadio evoluto (= mangiare pane, uno degli alimenti base delle società stanziali mesopotamiche e mediterranee) a uno involuto, barbaro e violento, valutato ovviamente in maniera negativa (= non mangiare pane).
Per approfondimenti sull’alimentazione nell’antichità greca, italica e romana c'è questo minisito dalla pagina ufficiale del Ministero dei Beni Culturali


