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Lettere classiche

Voto, promessa, preghiera

La parola italiano "voto" non designa solo il voto elettorale, ma anche i sacrifici e le promesse alle divinità. Roberta Ioli ci mostra come latino e greco utilizzassero due diversi lemmi per riferirsi ai due significati di "voto": in latino la dicotomia è fra votum e suffragium, in greco fra euché e psēphos
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Nella lingua italiana alla parola “voto” corrispondono tre principali aree semantiche: in ambito religioso il voto esprime una solenne promessa fatta agli dei per ottenerne in cambio benefici o protezione, ma indica anche l’offerta di un dono alla divinità come segno di riconoscimento per i favori ricevuti e suggello della sacralità di un legame; nell’accezione giuridica, voto è la preferenza accordata per mezzo di un processo deliberativo o elettivo, mentre moderna (e anche piuttosto misteriosa nella sua genesi) è l’applicazione del termine all’ambito scolastico o accademico come sinonimo di valutazione di una prestazione, come giudizio di merito in relazione al livello di preparazione raggiunto. Per gli antichi, il voto del maestro corrisponde semplicemente a un segno di lode (laus), se positivo, o a un contrassegno di demerito (nota), se negativo.

Il votum latino (participio perfetto del verbo voveo), da cui l’italiano deriva, corrisponde solo alla prima delle tre accezioni indicate: votum è infatti la promessa rivolta agli dei per propiziarsene il favore. I voti si formulano, si adempiono, si osservano, si può essere ad essi fedeli o infedeli; si possono invocare gli dei con propositi di rinuncia o di offerta, e in quest’ultimo caso i voti assumeranno la forma dell’oggetto/dono. Infine, i voti possono essere sciolti, come suggerisce l’espressione voti damnari, che alla lettera indica l’essere costretti a sciogliere il proprio voto dal momento che è stato esaudito il desiderio che ad esso era inizialmente legato.

Suffragium è invece il termine specifico per indicare sia l’esercizio del diritto di voto sia il suo esito: esprime in prevalenza un atto deliberativo che può avere conseguenze politiche, istituzionali, militari. Nell’antichità greco-romana il diritto di voto era esercitato, rispetto ad oggi, con notevoli restrizioni legate al sesso, all’età, al censo, all’origine: pur essendoci differenze tra le diverse poleis greche o, in ambito romano, tra Urbe, municipi, colonie e città alleate, erano comunque esclusi dal diritto di voto le donne, gli schiavi e gli stranieri.

Come la lingua latina, il greco adotta due termini diversi per le due accezioni prevalenti di “voto”, religiosa e giuridica. Al termine suffragium corrisponde il greco psēphos, che indica sia la piccola pietra sia il voto espresso attraverso di essa: il ciottolo bianco o pieno segnalava un voto favorevole, quello nero o forato un voto contrario. Come ci raccontano numerosi testi d’età classica, qualora il voto fosse palese i giudici disponevano di due urne, una per i voti favorevoli, l’altra per quelli contrari, oppure di un’unica urna per il voto segreto; a ciò seguiva il computo del totale. Nella tragedia Eumenidi di Eschilo, Oreste è accusato di matricidio e il tribunale ateniese dell’Areopago deve giudicarlo. Dopo che i giudici hanno inserito il proprio ciottolo nell’urna corrispondente, a seconda che si tratti di un voto di innocenza o di colpevolezza, gli scrutatori dovranno estrarre le piccole pietre, disporle su due distinti tavoli e farne il calcolo. Il verdetto risulterà di totale parità, e decisivo sarà allora il voto di Atena che determina l’assoluzione di Oreste e inaugura un nuovo ordine politico-religioso, in cui le Erinni sono divenute Eumenidi, non più terribili dee vendicatrici dei delitti di sangue, ma pacificate divinità della benevolenza. Nell’Apologia di Palamede, orazione epidittica scritta dal retore Gorgia alla fine del V secolo a.C., l’eroe Palamede dovrà essere giudicato per l’accusa di tradimento mossagli da Odisseo; ben prima del verdetto dei giudici, del quale però nell’orazione non vi è traccia, Palamede si rivolge alla natura, attribuendole il voto più potente, quello che decreta il nostro definitivo destino di creature finite: “infatti, la natura ha già condannato con voto palese tutti i mortali, nel giorno in cui nacquero” (Pal. 1). All’uomo spetta solo, in vita, la costruzione del proprio onore o disonore, della propria condotta virtuosa o ignobile.

Al votum dei latini corrisponde il greco euché. Fin dai poemi omerici troviamo precise attestazioni di sacrifici animali promessi agli dei per ingraziarsi il loro favore e sperare nell’adempimento futuro dei propri desideri. Molto dettagliato, per esempio, è il rituale che Circe consiglia a Odisseo di seguire per ingraziarsi “le gloriose stirpi dei morti” (Od. 10.526), quando l’eroe decide di scendere all’Ade con l’intenzione di interrogare sul proprio destino l’indivino Tiresia: si tratta di una preghiera accompagnata dall’offerta di latte e miele, vino e bianca farina e dal sacrificio di armenti pregiati. Anche altrove, nella poesia epica e tragica abbondano i riferimenti ai sacrifici di animali e all’offerta di doni preziosi per sancire un sacro patto che richiede rispetto assoluto. Nell’Orestea di Eschilo il rosso tappeto che accoglie il ritorno di Agamennone dalla guerra è l’elemento attorno al quale ruotano i voti della moglie Clitennestra, voti che si trasformano in spergiuri e che si innalzano come empia preghiera. Rivolgendosi infatti al marito e fingendo gioia per il suo ritorno, la regina gli dice: “avrei promesso in voto mille tappeti da calpestare […] quando cercavo il riscatto della tua vita” (Ag. 963-965). Sappiamo che si tratta di uno spergiuro, perché il solenne drappo rosso che, guidandolo dentro casa, accoglie Agamennone scampato alla guerra, non è altro che la tragica premonizione della sua fine, il sudario nel quale sarà avvolto il suo corpo. L’oggetto idealmente offerto in voto, presentato come ingannevole atto d’amore, diventa in realtà, nelle parole della stessa Clitennestra, non più drappo regale ma “rete senza uscita, come per i pesci” (Ag. 1382). Il voto disatteso si rivela strumento implacabile nelle mani degli dei, che non perdonano l’inganno nefasto e decretano la condanna della regina traditrice.

(Crediti immagini: Wikipedia e Elisabetta Stringhi, flickr)
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