A che cosa servono le fiabe? Che la loro funzione non sia solo quella di fare passare il tempo, lo sa chiunque abbia letto o raccontato una fiaba a qualche bambino o bambina, per sentirsi fare, nell’arco di pochi minuti, decine di domande che richiedono di precisare per bene il senso degli eventi narrati.
Con questo strano oggetto della cultura popolare che è la fiaba, Italo Calvino intrattiene una relazione stretta, dato che è sua la prima raccolta di fiabe italiane.
Calvino e le fiabe
Nella prefazione alla raccolta Le fiabe italiane (1956) Calvino racconta di aver dato vita a una raccolta di fiabe per un’esigenza editoriale, quella di pubblicare una raccolta di fiabe italiane e colmare il ritardo rispetto alle raccolte già pubblicate in altri Paesi. Nel suo lavoro Calvino si avvale di raccolte locali già esistenti, anche se in qualche caso non pubblicate, da cui trae e riscrive le fiabe per la sua raccolta. Questa operazione di riscrittura comporta un arricchimento dei dettagli, un rafforzamento della trama, un’aggiunta di testo, ma Calvino ritiene che, lungi dall’essere un’alterazione del racconto originario, questa riscrittura sia in linea con le normali prassi di reinvenzione che ogni narratore di fiabe mette in atto.
Non solo delle storie
Per sua stessa ammissione, Calvino è attratto dall’aspetto di fantasia e di cultura popolare della fiaba, ma non ne ignora le altre dimensioni, sebbene non le approfondisca. Solo di passaggio fa riferimento ai “freudiani” (come definisce gli psicologi), che vedono nella fiabe la fissazione di paure profonde. In effetti, qualcosa del genere è sostenuto dallo psicoanalista Bruno Bettleheim, che della fiaba ha fatto un terreno privilegiato di analisi. Nel sintetizzare la funzione della fiaba, egli afferma che «Mentre ascolta la fiaba, il bambino riceve delle idee sul modo di mettere ordine in quel caos che è la sua vita interiore. La fiaba consiglia non solo isolando e separando fra loro i disparati e disorientati aspetti dell’esperienza del bambino in opposti, ma anche proiettandoli in personaggi diversi». (Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1977).
A livello generale, la fiaba è strutturata in modo speculare alla mente del bambino. Per esempio, i personaggi sono polarizzati (buoni o cattivi), perché la mente del bambino ha la tendenza a polarizzare; inoltre, la fiaba tiene nascosti i suoi significati inconsci così come un bambino non è in grado di esprimere razionalmente il proprio inconscio; infine, la fiaba non spiega ma induce la fantasia del bambino a lavorare.
Ciò però non basta a spiegare il fascino della fiaba. L’elemento chiave delle storie, spiega infatti Anna Oliviero Ferraris (Prova con una storia, Fabbri editore, Milano 2005), è la metafora, ossia una forma di espressione figurata che “cattura l’attenzione e stimola la fantasia”.
Qualche fiaba per capire
Per fare un esempio della connessione tra la fiaba e i contenuti inconsci della mente del bambino, citiamo una fiaba famosissima, quella di Biancaneve. Essa, chiarisce Bettelheim, mette in scena molti drammi vissuti da una bambina nei confronti dei genitori: la rivalità con la madre per l’amore del padre, i pericoli del narcisismo (la matrigna che si specchia per cercare una conferma della propria bellezza), una figura maschile che salva la bambina.
Passando a un altro caso, le fiabe che hanno come protagonisti giovani alla ricerca della propria fortuna tra mille peripezie insegnano ai bambino che il mondo è pieno d insidie e pericoli, ma che è possibile trionfare contro di essi. Bettelheim fa riferimento a Cenerentola, ma nella raccolta di Calvino questa spiegazione si adatta ad altre fiabe, meno note come quella del povero Pierino Pierone alle prese con la strega Bistrega o di Giovannino che lotta contro il Mago corpo senz’anima.
L’importanza del raccontare
Una volta chiarito che la fiaba parla al bambino e alla bambina del loro inconscio, occorre spostare l’attenzione su un altro aspetto. Sia Calvino sia Bettelheim ci avvisano che l’atto della narrazione non è esterno alla fiaba, ma ne fa parte integrante. Il narratore, ricorda Calvino, svolge una funzione creativa e non si limita a ripetere quanto appreso. Anzi, durante il racconto si stabilisce, dice Bettelheim, un “fatto interpersonale”, una relazione più o meno inconscia tra narratore e ascoltatore, che piega la fiaba alle esigenze emotive dei bambini. Se questo è un fenomeno spontaneo, esiste una regola da seguire? Per Anna Oliviero Ferraris, chi racconta o legge una fiaba deve adattarsi ai feedback del bambino o della bambina per accentuare o sminuire il peso di alcuni aspetti del racconto, modificare la mimica facciale, emettere i suoni in modo adatto all’età dell’ascoltatore e alla sua capacità di autoregolazione delle emozioni.
Volenti o nolenti, o per il suo contenuto che pesca nel nostro inconscio o per l’abilità del narratore che si adatta alla mente di chi ascolta, intorno a noi si disegna una tela di interpretazioni e di interazioni: forse ha ragione Calvino a definire “aracnoidea” la natura delle fiabe, perché le immagini e le metafore di questi brevi racconti avvolgono la mente del narratore e dell’ascoltatore in una trama sottile e invisibile.
Crediti immagine: La bella e la bestia, Walter Crane, 1874 (Wikimedia Commons)