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Cinema e moda

Da Le ragazze di Piazza di Spagna a Sabrina, da Blow up a Coco avant Chanel Luigi Paini ci racconta i film che più hanno influenzato la moda e quelli che hanno raccontato alcune storie legate al mondo della moda. Se è vero infatti che la moda può ispirare il cinema è vero anche il contrario: può anche essere il cinema a influenzarla.

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Andata e ritorno. Senza sosta, perché tra cinema e moda il movimento avanti-indietro è inarrestabile. La moda entra nel cinema, e dall’altra parte il cinema influenza la moda, “fa” la moda e fa moda. Quando ancora c’era il muto, fino alla fine degli anni '20 del secolo scorso, gli abbigliamenti, le capigliature, le pose di divi e divine, da Rodolfo Valentino a Gloria Swanson, erano fonte d’ispirazione per gli spettatori di tutto il mondo, che volevano vestirsi, pettinarsi, atteggiarsi come i loro miti di celluloide. E con l’arrivo del sonoro le cose non cambiarono, anzi… Bastò, per fare un solo esempio, che nel 1934 Clark Gable “non” indossasse la classica canottiera bianca sotto la camicia in Accadde una notte, grandissimo successo di Franck Capra, perché le vendite di quel capo di vestiario precipitassero, mandando addirittura in crisi le aziende del settore! E gli esempi si possono moltiplicare all’infinito con Audrey Hepburn, Marlon Brando, Sophia Loren e Marcello Mastroianni, fino ai giorni nostri. Senza contare tutte le volte in cui il cinema ha parlato direttamente di moda, raccontando i grandi atelier, le maison più famose, sarte e sarti trattati alla stregua di sommi protagonisti della nostra “età dell’apparire”. Maghe e maghi del glamour, Pigmalioni redivivi, capaci di trasformare una persona qualunque in una star di prima grandezza. E noi, poveri ma grati spettatori, sempre sospesi e sorpresi a sognare a occhi aperti: perché questa, fin dalla sua nascita, è la vera essenza del cinema.  

Le ragazze di Piazza di Spagna, di Luciano Emmer, Italia 1952

“Marisa, Elena, Lucia. Tre nomi, tre volti, tre storie. Una storia sola”. Così il trailer (a quei tempi però si chiamava “provino”…) sintetizza come meglio non si potrebbe il bel film di Luciano Emmer: l’intreccio delle vite di tre donne, giovani piene di voglia di vivere che dalla periferia romana, dove abitano, si recano ogni giorno a lavorare in una casa di moda nel centro di Roma, in quell’angolo di paradiso che era (ed è) Piazza di Spagna. La Roma più bella, pochissimi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, desiderosa di lasciarsi alle spalle un recente passato cupo e doloroso. Gli interni della sartoria sono quelli della Casa Fontana, celeberrima “maison” frequentata dalle dame più in vista della Capitale (e non solo). Sono questi locali eleganti, questi abiti meravigliosi che riempiono la vita lavorativa della tre ragazze. E insieme la loro tormentata vita sentimentale, fatta di ansie e speranze, piccole invidie e gelosie e slanci di amore. “Io non sono portato a cercare un fatto straordinario per mettere in luce l’umanità di certi personaggi", dichiarava il regista. "Essi mi interessano, al contrario, nella loro vita quotidiana, con tutto quello che di triste e di lieto, di banale e terribile, può accadervi.” Ed è così che i due mondi, quello piccolo delle ragazze e quello grande dell’alta moda, si intersecano, a volte fino a collidere, specchio dei loro sogni e miraggio di una scalata sociale che può portare forse gioia, ma forse solo briciole di nulla. Essere e apparire, come sempre è la moda, raccontati con il tocco lieve di un maestro del migliore cinema italiano.

Sabrina, di Billy Wilder, Usa 1954 (e inoltre Vacanze romane, di William Wyler, Usa 1953; Colazione da Tiffany, di Blake Edwards, Usa 1961)

Si scrive Sabrina, si legge Audrey Hepburn. Una donna, un’attrice dal fascino gentile, garbato, malinconico, capace di inaspettati irrefrenabili lampi di allegria. Un’amica sul grande schermo, un essere all’apparenza fragile, in realtà dotato di forza superiore, di un “qualcosa in più” talmente suggestivo da aver superato indenne le decine di anni che ci separano dai suoi film più celebri. In questa pellicola, ci ricorda la voce dell’Enciclopedia del Cinema Treccani a lei dedicata, “vestita dallo stilista Hubert de Givenchy, divenne l’emblema di un nuovo tipo di donna, insieme raffinato e semplice, assolutamente inconfondibile”. Raffinata e semplice, ovvero la quadratura del cerchio di Audrey. La sua “esplosione” era già avvenuta l’anno prima, con il magico Vacanze romane (che fra l’altro contribuì a rendere ancora più di moda tra il pubblico internazionale le bellezze della nostra Capitale, e allo stesso tempo spinse il successo della Vespa, lo scooter italiano più famoso nel mondo). E all’inizio del decennio successivo, nel 1961 sarebbe arrivato Colazione da Tiffany, che ne consacrò ancor di più il mito. Audrey Hepburn è dunque un perfetto esempio dell’”andata e ritorno” tra grande schermo e tendenze della moda. Lei fa moda, il suo modo di vestire e di muoversi, la sua estrema eleganza naturale la rendono un modello per tutti, e non solo una modella per le grandi casa di sartoria. Esemplare in questo senso proprio la storia raccontata da Wilder (regista tra i più grandi della storia del cinema) in Sabrina: una ragazza americana semplice, di famiglia modesta, che dopo un soggiorno a Parigi (ovvero la metropoli simbolo dell’alta moda) ritorna a casa completamente trasformata. Una farfalla, del cui irresistibile fascino si accorgono finalmente i due figli del miliardario al quale il papà di Sabrina fa da sempre l’autista. Una favola, certo. Di quelle però che solo Hollywood dei tempi d’oro ha saputo creare.

Blow up, di Michelangelo Antonioni, Italia, Gran Bretagna, Usa 1966

Eccoci a Londra, un altro dei grandi poli mondiali della moda. La Londra degli anni '60 del secolo scorso, la “Swinging London” da cui partiva una serie impressionante di mode, dalla minigonna alle canzoni dei Beatles, destinate a coinvolgere in un attimo il mondo intero. Ed è in questo universo estremamente vitale che Antonioni, regista sempre attento alle difficoltà esistenziali, ambienta una storia in cui il mondo sfavillante della moda fa solo da sfondo, mentre il vero centro narrativo sembra sfuggire inquadratura dopo inquadratura. Come l’oggetto della ricerca del protagonista, un fotografo (di moda, appunto) che si trova casualmente al centro di un mistero. Mentre sta sviluppando alcuni scatti effettuati in un grande parco della città, si accorge attraverso successivi ingrandimenti (questo il significato del titolo “Blow up”) che le immagini nascondono qualcosa. Dietro un cespuglio gli sembra di vedere il cadavere di un uomo. Apparenza o realtà? E perché una donna fa di tutto per riavere quel rullino? Quale mistero si nasconde in quella foto, anche in considerazione del fatto che il mattino seguente qualcuno ha fatto sparire il morto? Il film non dà risposte, approfondendo sempre più la sensazione di precarietà, di insicurezza, di labilità. La realtà sfugge sempre al nostro controllo, quel mondo sfavillante fatto di bellissime e disinibite modelle, di vita sregolata, di continua ricerca di emozioni forti è a conti fatti un mondo vuoto, senza un basamento solido su cui appoggiarsi. Antonioni rivela una volta di più la sua attrazione fatale per l’inquietudine, capace di corrodere anche (soprattutto?) la Londra dei sogni. E tutto questo nel lontano 1966, quando agli occhi dei più la città rappresentava solo un mito positivo.

Prêt-à-porter, di Robert Altman, Usa 1994

Ritorno a Parigi. È la settimana delle sfilate di alta moda, tutto il “bel mondo” internazionale si dà appuntamento nella Ville Lumière. Come sua abitudine, Robert Altman non sceglie una storia singola, ma un incredibile intreccio di piccole vicende, un tourbillon infinito di stilisti, modelle, giornalisti, “imbucati” (non mancano mai in queste occasioni) sullo sfondo degli hotel più lussuosi, dei ristoranti più à la page, sotto gli obiettivi insaziabili dei paparazzi che scattano, scattano, scattano alla ricerca del pettegolezzo che può valere uno scoop. “Spumeggiante perché il suo oggetto è la spuma, superficiale perché il suo tema è la superficialità, l’epopea dell’effimero. Sotto il vestito niente, e filmare il niente non è facile”: questo il commento sul film del Dizionario Morandini. Definizione perfetta, perché in trasparenza vediamo, attraverso gli specchi dell’alta moda, il riflesso di un modo radicalmente legato solo all’apparire. Con colpi di regia davvero da maestro: come il formidabile omaggio alla mitica coppia Mastroianni-Loren, che il caso fa ritrovare nella suite di un grande albergo. E Sophia ripete lo spogliarello di Ieri, oggi, domani, film diretto d Vittorio De Sica nel 1963, mentre Marcello “se la mangia” con gli occhi. Omaggio al grande cinema del passato, con dolce nostalgia. Una pausa di simpatico e “ruspante” erotismo, mentre tutto attorno il carosello impazzito non si ferma mai. Perché, come afferma Kim Basinger, un’altra delle celebri attrici impegnate nel film, “La moda, amici miei, è guerra”. Ps: La visione di “Prêt-à-porter” si può utilmente abbinare a quella di Il diavolo veste Prada, commedia americana con battute al vetriolo diretta nel 2006 da David Frankel e chiaramente ispirata alla temutissima “regina” della moda newyorchese, Anna Wintour. Anche qui, tra guerra e moda il confine è molto, molto labile…

Coco avant Chanel – L’amore prima del mito, di Anne Fontaine, Francia 2008

Gli anni di formazione di una delle più grandi stiliste del secolo scorso, la francese Gabrielle “Coco” Chanel (1883-1971). L’infanzia in orfanatrofio, dove impara l’arte del cucito; l’apprendistato come sarta in un negozietto e, la sera, le esibizioni canore in localetti di terz’ordine. Ma la ragazza ha stoffa (è il caso di dirlo…) da vendere, e grazie alla conoscenza del nobile Etienne, ricchissimo e superintrodotto nel mondo che conta, inizia a far conoscere la sua abilità. Prima cappellini, poi vestiti di nuovo tipo, lontani mille miglia dalla ingombrante moda femminile che allora imperava. “Fino a quel momento", dirà poi Coco "avevamo vestito donne inutili, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche; invece, avevo ormai una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito”. E ancora: “La vera eleganza non può prescindere dalla piena possibilità del libero movimento”. Idee in quel momento, un secolo fa, davvero rivoluzionarie, anticipatrici dei tempi. Coco Chanel interpreta l’esigenza femminile di diventare protagonista attiva della società, e questo si traduce anche in un modo di vestire radicalmente nuovo rispetto al passato. Il film intreccia i primi 40 anni della sua vita privata, attraversata da grandi amori e frequentazioni di assoluti protagonisti della cultura del tempo, al suo successo crescente nel campo della moda. Fino alle soglie di quel mito, appunto, che neppure posizioni politiche molto discusse (durante la Seconda guerra mondiale la sua posizione verso gli occupanti nazisti fu perlomeno ambigua) riuscirono davvero a scalfire. Anche in questo caso può essere utile abbinare la visione del film di Anne Fontaine a quella di Il filo nascosto, diretto nel 2017 da Paul Thomas Anderson. Ancora un laboratorio di alta sartoria, questa volta nella Londra degli anni 50 del '900, diretto da un uomo tanto geniale quanto assediato da nevrosi e ossessioni continue. Genio e sregolatezza, una volta di più, al servizio di un “tiranno” chiamato moda (senza dimenticare che il film ha ottenuto l’Oscar, appunto, per i costumi).

Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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