La parola “crisi” è di quelle che mettono in… crisi! Usata e, troppo spesso, abusata; buona per tutte le stagioni, tanto per indicare piccole difficoltà personali («Sono un po’ in crisi…») quanto per designare reali e colossali tragedie geopolitiche (la “Crisi in Ucraina”). E inoltre, non bisogna dimenticarlo, può addirittura assumere una valenza positiva: le benefiche “crisi di sviluppo”, ad esempio, con happy end. Il cinema, da sempre e per sempre specchio della realtà, ha accettato tutte, ma proprio tutte queste suggestioni, ovviamente trasformandole da par suo. L’immagine cinematografica è inevitabilmente immagine deformante e deformata , ma non per questo meno interessante e colma di informazioni. Come un sogno, sta a noi interpretarla e “gustarla”. Non a caso, questa volta nella scelta dei titoli abbondano i capolavori.
La crisi!, di Coline Serreau, Francia 1992
Una vita piena di soddisfazioni, quella di Victor: un buon lavoro, una bella famiglia, nessun problema economico. Non c’è che dire, l’uomo è perfettamente soddisfatto di quello che ha costruito negli anni. E così, quando un mattino arrivando in ufficio scopre di essere stato licenziato, non sa farsene una ragione: ma perché, ma dove, ma come ha sbagliato? Povero Victor, non sa che è solo l’inizio dei suoi guai. Lo stesso malefico giorno, infatti, viene pure lasciato dalla moglie, apparentemente invaghita di un altro… La crisi, devastante, è stata repentina. Forse c’erano stati dei segnali, ma Victor non se n’era accorto, come confida agli amici che gli sono rimasti e presso i quali cerca conforto, dopo aver mandato i figli dai suoceri. Una crisi personale e famigliare che, nelle intenzioni della regista, diventa il segno di una crisi ben più grande, quella della società francese. Trent’anni fa come ora, le certezze venivano tutte messe in discussione: la famiglia, il lavoro, i punti di riferimento culturale. Un tarlo, questa crisi con il punto esclamativo del titolo, che non ha mai smesso fino ai giorni nostri di mandare in tilt “les citoyens français”.
La dolce vita, di Federico Fellini, Italia 1960
Torniamo indietro di altri trent’anni, nell’Italia felice e spensierata del “boom” economico. Ben pochi italiani, in quegli anni, potevano o volevano pensare a una possibile crisi in arrivo: la guerra era finita da 15 anni, l’imperativo assoluto per tutti era lavorare, darsi da fare, mettere via un po’ di soldi e, perché no?, divertirsi. Ed è proprio qui che arriva quel “guastafeste” di Fellini (se ci pensate bene, gli artisti più grandi sono sempre un po’”guastafeste”): il grandissimo regista di Rimini, che scrive il film assieme agli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, vede che la macchina sociale si sta inceppando, che dietro tutta quella smania, quella voglia di strafare si comincia a sentire qualcosa, anzi molto che non va. E così, mentre da una parte un giovanissimo Adriano Celentano canta a squarciagola Ventiquattromila Baci, enorme successo del momento, dall’altra il giornalista Marcello, il protagonista, vaga per Roma sempre più travolto da un’insuperabile insoddisfazione esistenziale. Partito dalla provincia (come esattamente aveva fatto il regista in gioventù) passa i giorni e le notti inseguendo la cronaca mondana della Capitale, per poi riversarli nei suoi articoli. Ma più la vita, soprattutto quella notturna, appare sfavillante e piena di promesse, più si fa largo il Vuoto. Nessun senso, nessuna speranza, nessun vero sentimento, tutto sembra essere travolto. Fellini e i suoi sceneggiatori “pre-vedono”, “sentono” che il giocattolo sta rompendo. L’età italiana più felice, che ha tra l’altro coinciso con lo sviluppo impetuoso del nostro cinema migliore, sta inesorabilmente entrando in “crisi”.
Andrej Rublëv, di Andrej Tarkovskij, Urss 1966
E ora un grande salto nel passato, addirittura nel Medioevo russo. Come già con La dolce vita, anche qui siamo di fronte a un immenso capolavoro: un film profondo, maestoso, da vedere con attenzione quasi religiosa. Un film non facile, certo, ma che a ogni nuova visione rivela ricchezze inaspettate. Sullo sfondo di tragiche vicende storiche (invasioni, guerre, tradimenti, ovunque violenza e morte) il film racconta il peregrinare, fisico e spirituale, del monaco Andrej Rublëv, straordinario pittore di icone realmente vissuto tra il 1360 e il 1430. Tutto il tempo della sua esistenza è un tempo di grande crisi: la terra russa è percorsa da orde di barbari, i principi si fanno la guerra l’un l’altro, per gli umili non sembra esserci speranza. E quando Andrej, già divenuto esperto nel suo mestiere sacro, assiste a un atto di violenza particolarmente efferato ed è costretto lui stesso a uccidere un soldato, ecco che entra in una crisi personale radicale. Per espiare la sua colpa non solo non dipingerà più, ma addirittura si chiuderà in un mutismo assoluto. Il mondo, dunque, rischia di perdere un artista favoloso, una persona che con la sua opera più illuminare la via e la vita degli altri esseri umani. È giusto tutto questo? Ha il diritto Andrej di privare i suoi contemporanei e noi tutti del suo divino talento? L’ultimo, grandioso episodio del film (intitolato La campana) ci dà la risposta. Ed è una risposta che ci illumina e ci riempie di gioia perché Andrej scopre la ragione per continuare a lavorare, per donare di nuovo la sua arte al mondo. Se pensate che il regista Andrej Tarkovskij lavorava in Unione Sovietica, uno Stato governato da una feroce dittatura comunista, vi rendete conto di quanto le vite dei due Andrej, il pittore e l’uomo di cinema, finiscano per coincidere e per donare anche a noi una possibile via di soluzione alle crisi, ora come allora, che incombono sull’umanità.
Il padre di famiglia, di Nanni Loy, Italia 1967
Prodotto pochi anni dopo La dolce vita, ecco un altro film indagatore sul “male di vivere” che sembra essersi impossessato della società italiana a cavallo tra i favolosi anni Cinquanta e il sempre più problematico decennio successivo. Seguiamo la parabola esistenziale di Paola e Marco: studenti di architettura all’Università di Roma, si fidanzano e si sposano appena finita la Seconda guerra mondiale, quando tutto il nostro Paese nutre una straordinaria speranza nelle possibilità del futuro. I due non sono certo da meno, anche perché il loro mestiere li spinge a sognare nuovi scenari urbanistici liberi dalla speculazione, attenti alle esigenze dei cittadini più svantaggiati. E invece… e invece la realtà è molto, molto diversa. I palazzinari imperano, i compromessi sono sempre più pesanti, la famiglia cresce in continuazione. Ora Paola e Marco hanno quattro figli, e lei ha abbandonato il lavoro fuori casa per dedicarsi completamente alle faccende domestiche, mentre lui è sempre più insoddisfatto e desideroso di cambiare vita. I sogni sono morti, la quotidianità sommerge tutto, il futuro non sembra più promettere nulla di buono. Sullo sfondo di vent’anni della vita di una famiglia, Nanni Loy racconta l’intera parabola di un Paese, la nascita di una crisi radicale che ha le sue radici in un passato lontano, sul quale non si è mai adeguatamente riflettuto.
Donne sull’orlo di una crisi di nervi, di Pedro Almodóvar, Spagna 1988
Sono due i motivi per inserire il film di Almodóvar (il «monellaccio del cinema spagnolo post-franchista», secondo l’arguta definizione del critico Morando Morandini): la prima è perché ha la parola “crisi” nel titolo, proprio come la pellicola che sta in testa alla nostra lista; la seconda sta nel fatto che, finalmente!, si tratta di una storia divertente, addirittura una commedia con risvolti farseschi. Dunque, sulla crisi si può anche ridere, la crisi e la mitologia della crisi possono essere prese in giro, regalando allo spettatore una ristorante pausa di pace e sollievo dal “logorio della vita moderna”. Sono tutti un po’ “fuori di zucca”, i protagonisti, in linea con lo stile che da sempre caratterizza il regista spagnolo. C’è una donna, Pepa, che è appena stata lasciata dal suo compagno. Lei crede che lui sia tornato con l’ex moglie, uscita da poco dall’ospedale psichiatrico, e invece l’uomo ha un’altra amante. Intanto, nell’appartamento di Pepa si succede un vortice di avvenimenti, compreso persino l’arrivo di due poliziotti alla ricerca di terroristi, insieme a svariati altri personaggi di ogni tipo. Tutti, più o meno, in crisi, soprattutto le donne, come recita il titolo, lì lì per scoppiare. Siamo diventati un po’ tutti matti? Almodóvar ce lo ripete dal lontano 1988 in tanti dei suoi film, passando con naturalezza dalla commedia al melodramma, fino a sfiorare la tragedia. Qui esorcizza la parola “crisi”: lo fa con sofisticata maestria, giocando con i suoi personaggi, prendendo in giro le loro nevrosi. Che, con ogni probabilità, sono spesso anche le nostre…
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