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Farenheit 451, di François Truffaut (Francia 1966)
I libri? Proibiti. Tutti, senza eccezione. La lettura? Proibita, e chi viene scoperto in flagrante viene punito con estrema severità. Il futuro immaginato da Truffaut (e prima di lui dal romanzo omonimo di Ray Bradbury da cui il film è tratto) è un posto agghiacciante. Un universo rovesciato, come in “1984” di George Orwell: i pompieri, ad esempio, invece di spegnere gli incendi hanno il compito di dar fuoco ai volumi sequestrati nelle case dei “rei di lettura”. Ogni attività umana è basata su quanto viene trasmesso dalla televisione: ci sono schermi ovunque, sempre accesi. Servono per conoscere le notizie, ovviamente selezionate in modo accurato da chi detiene il potere; ma servono anche per ritmare con regolarità le ore della giornata lavorativa e i momenti di svago. In una società così perfetta per definizione, i libri, soprattutto i classici, non possono avere che un influsso negativo. Parlano di persone e vite immaginarie, danno vita a strane fantasie, e quindi sono responsabili dell’infelicità e, ancor di più, della possibilità di un dissenso. Vanno perciò tolti di mezzo, distruggendoli appunto nel fuoco (451 gradi farenheit è la temperatura a cui brucia la carta). Ribellarsi è giusto, qui come in ogni universo chiuso in cui un potere assoluto impone agli individuo i suoi voleri. Ed è proprio un pompiere che, tra una missione e l’altra, si rende conto di quanto sia importante il contenuto dei libri che sta distruggendo. Il finale è suggestivo: per resistere al potere, i lettori impenitenti decidono di imparare a memoria i maggiori capolavori della letteratura di tutti i tempi e di tutti i Paesi. Non ci saranno forse più libri, ma resisteranno i loro contenuti di libertà. Il mondo di Bradbury-Truffaut è ambientato nel futuro, ma è incredibile come possa avere riferimenti al nostro tempo. La Germania nazista ha fatto dei roghi dei libri uno dei suoi simboli più cupi; nella Russia comunista, le opere proibite circolavano in copie clandestine, sfidando il rischio concretissimo della deportazione nei gulag siberiani. Nella Corea del Nord dei nostri giorni, milioni di persone sono letteralmente tagliate fuori dal resto del mondo: né Internet, né telefonate all’estero, né libri proibiti. Il futuro peggiore ha già abitato e ancora abita tra di noi.
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Il dormiglione, di Woody Allen (Usa 1974)
Ma sì, buttiamola sul ridere. Con Woody, naturalmente, proiettato avanti nel tempo di ben 200 anni. È stato ibernato nel 1973, in seguito alle complicanze di una banalissima operazione chirurgica. E ora si trova a essere risvegliato nella più classica delle società distopiche immaginate dagli scrittori di fantascienza. Come sempre in questi casi, c’è un potere assoluto (il “Caro leader”), ci sono i suoi fedelissimi scherani e, da qualche parte, incomincia a organizzarsi la resistenza. La cosa divertente è che Woody, un omino qualsiasi del nostro tempo, si trova catapultato contro la sua volontà in questo incubo in cui tutto è regolato da macchine e robot. Per la comicità del regista americano è un a vera e propria pacchia: già a disagio nell’universo contemporaneo, figurarsi in queste case futuribili, dove ogni bottone nasconde una trappola e dove, negli orti sperimentali, si coltivano frutta e ortaggi dalle dimensione gigantesche. Diversi scambi di battute sono esilaranti: “Tu credi in Dio? - Be', io credo che... che ci sia qualcosa lassù che ci osserva dall'alto. - Sì, purtroppo è il governo”; oppure: “Hai mai preso una posizione politica seria nella vita? - Sì, da piccolo ho rifiutato degli spinaci...”; e ancora: “Che ci faccio qui? Ho 237 anni, e dovrei stare a casa a godermi la pensione”. Insomma, il futuro è un incubo? Una risalta lo seppellirà!
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Stalker, di Andrej Tarkovskij (Urss 1979)
“Vedere” il futuro è una (presunta) capacità che si associa di solito ai (presunti) sensitivi. Insomma, qualcosa di molto, molto vicino all’impostura. Ma c’è un’altra categoria di persone che possiede, in questo caso veramente, la capacità di intravedere, come in una trance onirica, quanto sta per succedere. Questa categoria è rappresentata dagli artisti. Ovviamente solo dai più grandi di loro, come il russo Andrej Tarkovskij, che nel 1979, ovvero sette anni prima del disastro di Chernobyl, mise al centro del suo film una “Zona” spopolata, simile in modo inquietante all’”area proibita” formatasi intorno alla città ucraina in seguito all’esplosione nella centrale nucleare. Un caso, una coincidenza, certo. Ma anche una formidabile capacità di “lettura” delle problematiche contemporanee, in grado di cogliere il “filo rosso” nascosto alla vista di noi persone normali. In “Stalker” questa Zona è descritta minuziosamente, e sembra quasi di osservare i boschi, le case disabitate, i parchi giochi in cui ancora adesso, ai nostri giorni, le guide autorizzate accompagnano sparuti e temerari visitatori. Anche nel film qualcuno vuole entrarci: uno scrittore e uno scienziato, accompagnati da una guida (lo Stalker del titolo, appunto). Vogliono entrarci perché si è sparsa la voce che all’interno del territorio proibito esista un luogo, una sorta di scatola magica, in cui è possibile esaudire i propri desideri più reconditi. Con Tarkovskij la fantascienza fa un doppio salto mortale di qualità. L’ambientazione futuribile serve soprattutto per mettere a fuoco problematiche esistenziali legate, legatissime al nostro presente. Come in un altro capolavoro del regista russo, “Solaris”, girato otto anni prima. Anche qui in un mondo del futuro, su un’astronave in viaggio a distanza siderale dalla Terra, succede qualcosa di strano. La causa di tutto sta nel pianeta Solaris, una sorta di gigantesco, magmatico ammasso pensante capace di dare forma tangibile ai pensieri dell’uomo. Verità, senso della vita, amore, desideri buoni o malvagi: tutto si materializza, tutto esce dalla pura sfera della coscienza, mettendo ciascuno di noi di fronte ai suoi più intimi e profondi tormenti esistenziali.
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Gravity, di Alfonso Cuaròn (Usa – Gran Bretagna 2013)
E alla fine… risorge (forse) il mondo nuovo. Una donna coraggiosa, l’astronauta Ryan, si ritrova su un’astronave in orbita intorno alla Terra, colpita e quasi distrutta da una pioggia di detriti spaziali. Il futuro di “Gravity” è in realtà, per gran parte della durata del film, un perfetto presente. Certo, un presente un po’ speciale, con tutte quelle macchine ultramoderne, le passeggiate al di fuori del modulo principale, i computer di ultimissima generazione. Insomma, il “presente futuribile” cui ci hanno abituati, per esempio, le “dirette” della popolarissima astronauta italiana Samantha Cristoforetti. E dunque, fin quasi verso il finale, la vicenda ci attanaglia soprattutto perché è una pura e semplice lotta per la sopravvivenza, simile a tante altre raccontate dal cinema americano. Pericoli che si sommano ai pericoli, salvezza già creduta possibile e poi sfuggita all’ultimo momento, pause narrative in cui il ritmo rallenta e poi, all’improvviso, il nuovo colpo di scena che rimette tutto radicalmente in discussione. Il futuro possibile, il futuro suggerito, il futuro rigenerato si nasconde in realtà nel finale. Ryan si trasfigura in una sorta di novella Eva quando, finalmente salva dopo il ritorno sulla Terra, si ritrova e si risveglia (“ritorna alla vita”) in un Eden sovrannaturale, in un Paradiso terrestre incontaminato e situato “prima” o “fuori” dal tempo. O forse “dopo” il nostro tempo. Insperatamente rinata, Ryan-Eva intravede ora un compito davanti a lei: rispettare quel mondo che scruta e scopre e assapora per la prima volta con occhi nuovi. Dare alla Terra, quel piccolo puntino insignificante che fluttua nello spazio infinito, la centralità primigenia della Creazione. È sì un puntino infinitesimale, un granello di sabbia, ma è il “nostro” granello di sabbia. Da difendere con le unghie e con i denti.
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Crediti immagini:
Apertura: locandina del film Gravity (da YouTube)
Box: particolare della locandina del film Viaggio nella Luna

