Aula di lettere

Aula di lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Come si parla
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Storia e Geografia

Negli ultimi vent'anni l'Italia ha cambiato due volte sistema elettorale, passando dal cosiddetto «Mattarellum» al «Porcellum», e ora si sta lavorando all‘«Italicum». Ecco alcuni strumenti utili per seguire questo dibattito
leggi
Negli ultimi venti anni l’Italia si è data due diversi sistemi elettorali: il cosiddetto «Mattarellum» nel 1993 e poi il «Porcellum» nel 2005. Con il primo sistema si sono celebrate le elezioni politiche del 1994, del 1996 e del 2001; con il secondo quelle del 2006, del 2008 e del 2013. Già aspramente avversato da molte forze politiche, il Porcellum è stato recentemente dichiarato «incostituzionale». Nei prossimi mesi, dunque, entrerà nel vivo il dibattito sull’adozione di un nuovo sistema elettorale, il cosiddetto «Italicum», che è già stato definito a grandi linee da un fronte almeno relativamente ampio di forze politiche, ma che sarà con ogni probabilità sottoposto a ulteriori (e forse consistenti) aggiustamenti. Poiché i sistemi elettorali sono congegni assai complicati, ci proponiamo di fornire alcuni strumenti utili per seguire con maggiore attenzione questo dibattito. In esso spiegheremo anzitutto che cosa sono e come si possono definire i «sistemi elettorali» (§ 1). Dopo una breve premessa sulle principali famiglie dei sistemi elettorali (§ 2), analizzeremo il funzionamento dei sistemi maggioritari (§ 3) e dei sistemi proporzionali (§ 4). Cercheremo di capire come operano tali sistemi in contesti in cui competono due o più partiti (§ 5) e quale funzione «ingegneristica» essi possano esercitare per «forzare» i meccanismi di funzionamento di un dato sistema politico (§ 6). Concluderemo con qualche breve riflessione sul dibattito che sta per aprirsi nel nostro Paese in merito all’ipotesi di una nuova legge elettorale (§ 7).   1. ALCUNE DEFINIZIONI PRELIMINARI Elezioni e sistemi elettorali. In termini del tutto generali i «sistemi elettorali» posso­no essere definiti come insiemi di procedure e di norme giuridiche che disciplinano lo svolgimento complessivo delle elezioni in una data comunità politica. Essi variano sensibilmente da Paese a Paese. Ma possono essere molto diversi anche all’interno di ognuno di essi in relazione alla pluralità e alla varietà di elezioni cui i cittadini sono di volta in volta chiamati quando devono eleggere – per fare solo alcuni esempi – un sindaco, un consiglio comunale o provinciale, un’assem­blea rappresentativa regionale, un parlamento nazionale a sua volta eventualmente suddiviso in due camere, una frazione di un parlamento sovranazionale del tipo del parlamento europeo, il capo dell’esecuti­vo. Gli elementi costitutivi dei sistemi elettorali. I sistemi elettorali determinano quattro fondamentali elementi:
  1. l’elet­to­ra­to attivo (chi ha diritto di votare);
  2. l’eletto­rato passivo (chi può essere eletto);
  3. le norme «di contorno» relative alla campagna elettorale, alle possibili forme di espressione del voto e alle garanzie del corretto svol­gimento delle elezioni;
  4. le modalità con cui i voti degli elettori si traducono in cariche e/o in seggi.
In linea di massima, i sistemi democratici contemporanei sono ormai sostanzialmente uniformi per quanto riguarda i primi tre elementi. In essi, infatti, l’uni­versalità del diritto di voto e dell’accesso alle cariche elettive, così come le garanzie che assicurano un corretto svolgimento delle elezioni, sono ormai acquisite in modo omogeneo. Ciò che varia, spesso assai sensibilmente, è invece il quarto elemento. Votare per un carica monocratica o per un’assemblea rappresentativa. A questo proposito si deve fissare una prima importante distinzione tra due fattispecie di elezioni molto diverse: l’elezione di una singola persona a una carica monocratica (ad esempio un sindaco, un governatore regionale o il presidente degli Stati Uniti d’Ameri­ca) e l’elezione di un’assemblea rappresentativa (ad esempio un parlamento regionale o nazionale). Il caso dell’elezione di una singola persona a una carica monocratica è senza dubbio il più semplice. In questo caso i sistemi elettorali determinano essenzialmente due elementi. Il primo è se l’elezione debba essere diretta oppure indiretta, vale a dire se i cittadini debbano votare direttamente per la persona che poi otterrà la carica oppure, come accade per il presidente americano, per dei «grandi elettori» che a loro volta voteranno per i diversi candidati in lizza. Il secondo è se i candidati vincano a maggioranza relativa (con il maggior numero di voti) in un unico turno elettorale oppure a maggioranza assoluta (con la metà più uno dei voti), con l’eventualità di un secondo turno elettorale là dove tale maggioranza non sia raggiunta alla prima tornata. Il caso dell’elezione di un organo collegiale o di un parlamento è assai più complesso. Da questa fattispecie di elezioni, infatti, non deve risultare eletta una sola persona che abbia conquistato la maggioranza dei voti, ma un’assemblea di più persone e di più partiti, che in molti casi può contare diverse centinaia di membri. Norme e procedure diventano così assai più complicate e devono servire a «tradurre i voti in seggi» e a distribuirli tra i diversi partiti in competizione. È soprattutto di questa seconda fattispecie di elezioni che si occupano oggi gli studiosi dei sistemi elettorali. Ad essa faremo riferimento anche noi nelle prossime pagine.   2. SISTEMI MAGGIORITARI E SISTEMI PROPORZIONALI: UNO SGUARDO D’INSIEME Due famiglie di sistemi elettorali. Esiste una grandissima varietà di sistemi elettorali per l’elezione di assemblee parlamentari. A prescindere dai cosiddetti «sistemi misti», sui quali le opinioni degli studiosi spesso divergono, questa varietà di sistemi può essere ricondotta a due diverse famiglie: i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali. In linea di massima, i primi tendono a «premiare un vincitore» e a favorire la «governabilità» con effetti in varia misura «dis-rappre­senta­tivi» (che distorcono cioè la volontà espressa dagli elettori). I secondi, invece, privilegiano l’esi­genza di «rappresentare» il più possibile i diversi orientamenti degli elettori, spesso – ma non necessariamente – a discapito della governabilità stessa. Sempre in linea di massima, i due sistemi funzionano in maniera «fisiologica» in contesti politici in cui a competere sono rispettivamente due partiti (sistemi bipartitici) oppure tre o più partiti (sistemi multipartitici). Vi è tuttavia una particolare famiglia di sistemi maggioritari – quelli a doppio turno – che funziona adeguatamente proprio nei sistemi multipartitici. Fatta eccezione per i sistemi proporzionali «puri» o «quasi puri», che non generano alcun particolare effetto nella traduzione dei voti in seggi, tutti gli altri sistemi elettorali – le varie forme di proporzionale «corretto» e i sistemi maggioritari – possono produrre rilevanti effetti dis-rap­presen­tativi e quindi esercitare forti pressioni sulle scelte degli elettori e sugli stessi partiti. È su questo elemento «ingegneristico» che finisce per precipitare ogni discussione sulle riforme elettorali. L’Italia di oggi non fa eccezione. Un equivoco da sciogliere. Per comprendere quali siano le differenze essenziali tra i sistemi maggioritari e quelli proporzionali si deve sgombrare il campo da un equivoco. Tali differenze, infatti, non risiedono tanto negli specifici effetti che i due sistemi producono, quanto piuttosto nella struttura più profonda della competizione elettorale cui essi danno luogo. Certo, i sistemi maggioritari e quelli proporzionali producono di massima risultati rispettivamente maggioritari e proporzionali. In molti casi, tuttavia, anche i sistemi proporzionali possono produrre effetti maggioritari. Ad esempio, quando prevedono – com’è il caso dell’attuale legge elettorale italiana, il Porcellum – un «premio di maggioranza» per chi ottiene la maggioranza dei voti. Il fatto che sia previsto tale premio, tuttavia, non significa che il sistema elettorale sia «maggioritario». Il Porcellum, infatti, non è un sistema maggioritario, ma un sistema proporzionale «corretto», che prevede cioè una serie di dispositivi (non solo il premio) atti a favorire il vincitore della competizione elettorale. Le differenze tra sistemi maggioritari e proporzionali. Per comprendere quali sono le principali differenze tra i sistemi maggioritari e quelli proporzionali è opportuno fare riferimento a tre dati strettamente correlati:
  • al numero di seggi in palio in ognuna delle ripartizioni in cui viene di regola suddiviso, per lo svolgimento delle elezioni, il territorio di una data comunità politica;
  • al fatto che gli elettori siano chiamati a votare per singole persone oppure per liste di partito;
  • alla specifica formula elettorale con cui, a urne aperte, si traducono i voti in seggi. Tale formula è maggioritaria quando i seggi sono attribuiti a quel candidato o a quei candidati che hanno ottenuto la maggioranza (relativa o assoluta) dei voti, e solo ad essi. È invece proporzionale, quando i seggi sono distribuiti in proporzione ai voti ottenuti dai singoli partiti.
Vediamo dunque come funzionano sotto questi tre aspetti i sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali, nella loro forma pura e nelle loro principali varianti.   3. I SISTEMI MAGGIORITARI Il collegio uninominale. Nella stragrande maggioranza dei casi i sistemi maggioritari si basano sul «collegio uninominale». Essi prevedono, cioè, che il territorio complessivo entro cui si svolgono le elezioni venga suddiviso in un ampio numero di sezioni – i «collegi» – in ognuna delle quali vi è soltanto un seggio in palio per il quale competono i diversi partiti con i loro candidati. Si immagini – per capire meglio – di dover eleggere un parlamento nazionale di 100 deputati. Con un sistema maggioritario, il territorio viene suddiviso in 100 «collegi» (tanti quanti sono i deputati da eleggere) e in ogni collegio si svolge una competizione tra partiti che produce un unico vincitore. I 100 vincitori di queste 100 singole competizioni andranno a formare l’assem­blea rappresentativa. Il voto alla persona. In un sistema così congegnato – in cui il vincitore, lo ripetiamo, è uno solo – gli elettori sono chiamati a votare non per liste di partito ma per la persona che i singoli partiti hanno deciso di candidare. Il che implica una tendenziale «personalizzazione» della competizione elettorale. La formula maggioritaria. Quanto alla formula elettorale – la formula maggioritaria – i suoi effetti per la traduzione dei voti in seggi sono già impliciti nel principio stesso del collegio uninominale. Poiché il seggio in palio è uno solo, vince semplicemente il candidato (e il partito) che ha ottenuto la maggioranza dei voti. E tutti gli altri perdono. Turno unico e doppio turno. A questo proposito, tuttavia, si dà un importante differenza nella tipologia dei sistemi maggioritari a seconda che la maggioranza richiesta per conquistare il seggio sia relativa o assoluta. A seconda, cioè, che per aggiudicarsi il seggio sia sufficiente aver ottenuto il maggior numero di voti (plurality) oppure sia necessario ottenere almeno la metà più uno dei suffragi (majority). Nel primo caso – che è quello del cosiddetto «maggioritario secco» in vigore ad esempio nel Regno Unito – l’elezione si svolge in unico turno e il primo classificato vince. Nel secondo caso – in vigore ad esempio in Francia – se al primo turno nessuno dei candidati in competizione ha ottenuto la metà più uno dei voti, si procede a un secondo turno elettorale, che si svolge di regola una o due settimane dopo il primo turno. A questo secondo turno possono accedere, a seconda di quanto previsto dalle diverse normative in vigore, i primi due partiti classificati, i partiti che hanno ottenuto almeno una data percentuale di voti al primo turno (come accade in Francia), oppure, in alcuni casi, anche tutti i partiti. Risulta in ogni caso vincitore il candidato che, in questa seconda tornata elettorale, ottiene la maggioranza relativa dei voti. Molte varianti, una logica. Al di là di questa fondamentale distinzione, esistono e sono esistite svariate fattispecie di sistemi maggioritari. La logica di fondo di questi sistemi rimane tuttavia quella di eleggere un’assemblea rappresentativa attraverso una molteplicità di competizioni elettorali a un unico vincitore. Quali siano gli effetti di questa logica, e quanto essi siano diversi nel caso del maggioritario secco e del maggioritario a doppio turno, lo vedremo più avanti. Prima conviene vedere come funzionano i sistemi elettorali di tipo proporzionale.   4. I SISTEMI PROPORZIONALI La circoscrizione plurinominale. A differenza dei sistemi maggioritari, i sistemi proporzionali si basano sempre su «circoscrizioni plurinominali». Essi prevedono, cioè, una suddivisione del territorio entro cui si svolgono le elezioni in un certo numero di sezioni – le «circoscrizioni» – in ognuna delle quali vi sono una pluralità di seggi in palio nella competizione tra i partiti. Il numero di queste circoscrizioni è ovviamente più ridotto di quello dei «collegi» nei sistemi maggioritari. Per capire meglio, riprendiamo il nostro esempio precedente e immaginiamo di dover eleggere con il proporzionale un parlamento nazionale di 100 deputati. In questo caso il territorio può essere suddiviso in 20 circoscrizioni con 5 seggi in palio, in 10 con 10 seggi, in 5 con 20 oppure in 4 con 25, e via dicendo. In alcuni casi (Israele) i sistemi proporzionali prevedono un’unica circoscrizione che coincide con l’intero territorio nazionale. In questa situazione, per restare al nostro esem­pio, si tratterebbe di un’unica circoscrizione che mette in palio tutti i 100 seggi disponibili. I 5, 10, 20, 25 o addirittura 100 vincitori di queste singole competizioni di circoscrizione vanno a formare l’as­semblea rappresentativa. Il voto alla lista. In un sistema del genere – in cui i vincitori, circoscrizione per circoscrizione, sono molti e in cui vi è dunque la prospettiva che una stessa formazione politica ottenga più seggi – i partiti non presentano (e gli elettori non votano) singole persone, come accade nei sistemi maggioritari, ma presentano (e gli elettori votano) delle liste di partito. Il che introduce ulteriori elementi di complessità. Tali liste, infatti, possono essere «aperte», se gli elettori possono esprimere preferenze per uno o più candidati, oppure «bloccate», se gli elettori non possono esprimere preferenze ma votano semplicemente per una lista di candidati preconfezionata dai partiti stessi in un dato «ordine di preferenza». Nel primo caso sono gli elettori a esprimere le proprie preferenze. Nel secondo caso sono le segreterie dei partiti. Le formule proporzionali. Dopo che gli elettori hanno votato, entra in gioco la formula elettorale, che traduce i voti in seggi. In questo caso – come si è già detto – essa distribuisce i seggi in palio in proporzione diretta ai voti che i partiti hanno ottenuto. Non vince, cioè, soltanto il primo classificato, come nei sistemi maggioritari. Vincono coloro che hanno ottenuto le percentuali più alte di voti fino all’esaurimento dei seggi in palio. Vi sono svariati e complicatissimi metodi per determinare questa «proporzione», che deve – compito non facile – tradurre milioni di voti in poche centinaia di seggi. Senza entrare nei dettagli, ci limitiamo a sottolineare che tali metodi (basati su «quozienti» o «divisori»), di regola poco noti ai non addetti ai lavori ma ben presenti ai legislatori e ai tecnici dei sistemi elettorali, possono produrre esiti assai differenti e più o meno «dis-rappresentativi». I correttivi al proporzionale. Al di là di tali metodi, i sistemi proporzionali possono prevedere ulteriori correttivi, che li rendono più o meno dis-rap­presentativi. Indichiamo brevemente i tre principali. Il numero dei seggi in palio. Il primo è quello che fa leva sulle «dimensioni» delle circoscrizioni elettorali, vale a dire sul numero di seggi che in ognuna di esse sono in palio. Come si può intuire, una circoscrizione con meno seggi in palio favorisce i partiti più grandi e danneggia i partiti minori. È quanto avviene ad esempio in Spagna, dove ci sono più circoscrizioni con meno seggi. Viceversa in circoscrizioni con un maggior numero di seggi disponibili anche i partiti più piccoli riescono a ottenere qualcosa. Il caso limite è quello già citato di un’unica circoscrizione di scala nazionale in cui sono in palio tutti i seggi disponibili. La soglia di sbarramento. Il secondo correttivo è quello che fissa delle «soglie di sbarramento» per l’ac­cesso alla rappresentanza dei partiti più piccoli (come accade in modo classico in Germania e anche in Italia con il Porcellum), stabilendo ad esempio che non ottengano alcun seggio i partiti che hanno meno del 4% o del 5% dei voti. La regola può valere a livello di singola circoscrizione oppure a livello nazionale. Il premio di maggioranza. Il terzo correttivo è quello che prevede un «premio» per il partito che ottiene la maggioranza relativa dei voti. Che gli attribuisce, cioè, una percentuale di seggi tale da consentirgli di avere una maggioranza assoluta in parlamento. Anche in questo caso, la regola può valere di volta in volta per le singole circoscrizioni oppure su scala nazionale. Essa può valere, inoltre, per un singolo partito oppure per una coalizione di partiti. E può prevedere o meno una quota minima di voti in percentuale per accedere al premio. Il risultato, in ogni caso, è che un partito (o una coalizione di partiti) che abbia il 35% o anche il 30% dei voti ottiene ad esempio il 55% o il 65% dei seggi. Dalla lista agli eletti. Dopo aver tradotto in tutti questi modi possibili i voti in seggi, dobbiamo ancora capire come risultano eletti i candidati che i singoli partiti hanno inserito nelle proprie liste. Il meccanismo, almeno in linea di massima (ma anche qui le varianti sono molte), è abbastanza semplice. Prendiamo il partito che ha vinto due seggi. Nel caso di lista aperta, ottengono il seggio i due candidati di quel partito che hanno avuto il maggior numero di preferenze. Nel caso di lista bloccata e dunque senza preferenze (è il caso del Porcellum), ottengono il seggio i due candidati che il partito ha posto in cima alla sua lista.   5. SISTEMI ELETTORALI E SISTEMI DI PARTITO Un’interazione essenziale. Dobbiamo ora vedere come funzionano i sistemi maggioritari e proporzionali nei diversi «sistemi di partito», soprattutto in relazio­ne alle due esigenze del «rappresentare» e del «governare». Analizziamo nell’ordi­ne i sistemi maggioritari «puri», i sistemi pro­porzio­nali e poi i sistemi maggioritari a doppio turno, che fanno caso a sé. I sistemi maggioritari a turno unico. In linea generale i sistemi maggioritari «puri» – e cioè a turno unico, in cui si vince nei singoli collegi con la sola maggioranza relativa dei voti – sono adottati e funzionano in modo adeguato nei sistemi bipartitici (come accade ad esempio nel Regno Unito). In tali contesti, quei sistemi producono un chiaro vincitore non soltanto – co­me abbiamo visto – nei singoli collegi, ma anche su scala nazionale. Vince, infatti, il partito che, con i suoi candidati, si aggiudica il maggior numero dei seggi in palio nelle singole competizioni di collegio, si trattasse anche solo di un seggio in più. E che, forte della maggioranza in parlamento, può poi procedere alla formazione del governo e governare saldamente. Al tempo stesso, tuttavia il maggioritario a turno unico produce, anche nei sistemi bipartitici, rilevanti effetti dis-rappresentativi. Li produce sempre – com’è ovvio – a livello di singolo collegio, dove è uno solo il candidato-partito vincente e dove quindi gli elettori del candidato-partito perdente risultano alla fine non rappresentati, anche per un solo pugno di voti. Ma può produrli anche, almeno in via teorica, a livello più generale. Se infatti in tutti i collegi risultassero sempre vincitori per un solo voto i candidati del partito A, avremmo un parlamento interamente composto da rappresentanti di A a fronte di un paese che in realtà è spaccato a metà tra elettori di A e di B. Un esito di questo tipo, di regola, non si dà, perché è ragionevole ritenere che i due partiti siano distribuiti in modo almeno relativamente disomogeneo sul territorio, di modo che in un certo numero di collegi vince A e negli altri B. Chi risulta davvero danneggiato in un sistema maggioritario a turno unico, tuttavia, sono gli eventuali terzi e quarti medi e piccoli partiti che intendano partecipare o partecipino effettivamente alla competizione elettorale. Gli effetti dis-rappre­senta­tivi del maggioritario a turno unico diventano assai più rilevanti nei sistemi multipartitici e aumentano con il crescere del numero dei partiti. Sia – s’intende – a livello di collegio, dove, per esempio, una competizione a 4 partiti in cui il primo prende il 26%, altri due il 25% e l’ultimo il 24% finisce per produrre un risultato che non rappresenta il 74% degli elettori. Sia su scala più generale, se dovesse riprodursi in molti o addirittura in tutti i collegi una situazione simile. Anche in questo caso avremmo un chiaro vincitore e dunque la prospettiva di un governo solido. Quel governo, tuttavia, rappresenterebbe la volontà di poco più di un quarto della totalità degli elettori. Il che pone evidentemente qualche problema. I sistemi proporzionali. I sistemi proporzionali sono adottati e funzionano in modo più o meno adeguato nei sistemi multipartitici. In tali contesti essi «rappresentano» tanto più fedelmente la volontà degli elettori quanto più sono «puri», e cioè privi di correttivi. Il problema di un sistema elettorale di questo genere – un sistema proporzionale tendenzialmente «puro» – è che in esso viene messa a rischio la possibilità di formare salde maggioranze di governo e dunque la «governabilità». E ciò in ragione diretta di due variabili che possono anche interagire tra loro: il numero dei partiti e/o la distanza ideologica che li separa gli uni dagli altri. Un elevato numero di partiti che abbiano accesso alla rappresentanza, infatti, rende inevitabile la formazione di governi di coalizione che sono poi esposti al «potere di ricatto» dei partiti minori. Allo stesso modo – si pensi per fare un esempio all’Italia politica emersa dalle elezioni del 2013 – in un sistema con tre grandi partiti di forza più o meno equivalente e tuttavia fortemente o del tutto indisponibili ad allearsi gli uni con gli altri l’ingo­vernabilità è pressoché assicurata, salvo situazioni eccezionali. È insomma la governabilità il punto dolente dei sistemi proporzionali. Ed è per questo che essi non sono mai puri, ma prevedono correttivi di diversa natura. Solo a questo prezzo funzionano. Ma nella misura in cui correggono finiscono per dis-rappre­sentare. Anche in maniera molto rilevante. I sistemi maggioritari a doppio turno. I sistemi maggioritari a doppio turno funzionano con una logica ancora diversa, che non è riconducibile né a quella del maggioritario secco né a quella dei sistemi proporzionali. Tali sistemi sono adottati e funzionano nei sistemi multipartitici (il caso esemplare è quello della Francia). In tali sistemi il maggioritario a doppio turno rende meno stringente l’alternativa tra l’esi­genza di «rappresentare» e quella di «governare». Dapprima a livello di singolo collegio e poi su scala generale, infatti, esso restituisce al primo turno una rappresentazione abbastanza fedele degli orientamenti dell’e­lettorato nelle sue diverse articolazioni. Al secondo turno, però, produce, sempre a livello di collegio e poi su scala complessiva, una sicura maggioranza di governo che è poi tendenzialmente in grado di esprimere esecutivi solidi. Al primo turno, infatti, l’elettore può tranquillamente votare «con il cuore» per il partito cui si sente più vicino. Sarà poi al secondo turno che egli voterà «con il cervello» per il partito da cui si sente meno lontano. Al primo turno, dunque, questo tipo di elezione produce un effetto «proporzionale», che rende visibile la forza relativa di tutte le forze in campo. Al secondo turno, però, esso produce un effetto maggioritario, individuando un unico vincitore. Si potrà dire che è soltanto questo secondo effetto che conta davvero in ultima istanza. Ed è proprio così. A questo secondo effetto, tuttavia, si arriva con modalità particolari. Di regola accade che nella settimana o nelle due settimane che separano il primo dal secondo turno i partiti maggiori cerchino in tutti modi di convincere rispettivamente i partiti minori a loro più affini e i loro elettori a votare per il proprio candidato. Per fare questo, essi devono «promettere» qualcosa in termini di cariche di governo e/o di punti programmatici. In tal modo, i partiti minori si trovano nella condizione di «ricattare» quelli maggiori. Ma ciò prima della conclusione delle elezioni e non dopo, quando si tratta di governare. Insomma: con il maggioritario a doppio turno i partiti di minoranza non vengono sovranamente bypassati, come accade di regola con il maggioritario secco; al tempo stesso, poiché a vincere sono co­munque sempre i partiti maggiori, quegli stessi partiti non possono esercitare, dopo le elezioni, quel potere di ricatto tipicamente prodotto dal proporzionale nei sistemi multipartitici, che rende quasi sempre instabili le maggioranze composite e i governi di coalizione.   6. SISTEMI ELETTORALI E INGEGNERIA ISTITUZIONALE Gli effetti manipolativi dei sistemi elettorali. I sistemi elettorali non sono soltanto condizionati nei loro effetti dalla particolare configurazione del sistema dei partiti in cui operano. Essi producono a loro volta degli effetti su tali sistemi. Esercitano cioè una pressione manipolativa che, incidendo sui risultati delle elezioni, retroagisce anche sulle opzioni di voto degli elettori e dunque sulla specifica configurazione del sistema dei partiti. Questi effetti non sono ovviamente illimitati, perché i partiti sono figli della storia di una data comunità politica e rispecchiano quasi sempre fratture sociali, ideologiche, culturali e di valore che, oltre una certa misura, non sono modificabili. Essi, tuttavia, possono essere comunque molto rilevanti. I sistemi maggioritari a turno unico. In linea di massima, possiamo dire che i sistemi maggioritari a turno unico scoraggiano gli elettori a votare per terzi e quarti partiti di medie e piccole dimensioni, che di regola non riescono ad accedere alla rappresentanza. Essi, dunque, finiscono per scoraggiare in radice l’esistenza stessa di tali partiti e possono forzare il sistema a modellarsi in senso bipartitico. I sistemi proporzionali. I sistemi proporzionali esercitano un effetto in qualche modo opposto. E ciò tanto più quanto più sono puri. Essi, infatti, non scoraggiano – e in alcuni casi addirittura stimolano – gli elettori a votare per i piccoli partiti. Il risultato è che tali partiti, in assenza di adeguati correttivi, tendono a proliferare e che il sistema tende ad assumere un profilo tipicamente multipartitico, con un effetto di complessiva instabilità che, oltre un certo grado, rischia di trasformarsi in ingovernabilità. I sistemi maggioritari a doppio turno. I sistemi maggioritari a doppio turno, infine, almeno al primo turno non scoraggiano gli elettori a votare per i piccoli partiti in cui si riconoscono. Ma li forzano a votare poi, al secondo turno, per uno dei grandi partiti che hanno concrete possibilità di vincere. Il risultato è che i medi e i piccoli partiti sono comunque stimolati a mettersi in gioco al primo turno e poi ad allearsi con i grandi partiti al secondo. Il sistema rimane multipartitico, ma con una forte spinta a strutturarsi in senso bipolare. Il che, almeno di regola, ha effetti positivi sulla governabilità. Le riforme elettorali. Questi diversi effetti manipolativi possono esercitare un ruolo importante là dove si tratti di correggere un sistema politico che comprime in modo eccessivo le minoranze oppure che non produce salde maggioranze di governo. In questi casi le riforme elettorali possono esercitare una significativa funzione ingegneristica. Esse possono irrobustire la rappresentanza delle minoranze in quei contesti in cui esse non sono quasi per nulla rappresentate, come accade nei sistemi rigidamente bipartitici. Oppure – e il caso è oggi assai frequente – possono ridurre la frammentazione partitica in quei contesti in cui la governabilità è a rischio oppure impossibile, come accade nei sistemi multipartitici a elevata frammentazione. Il primo effetto può essere generato dall’adozio­ne di sistemi elettorali maggioritari a doppio turno oppure di quelli proporzionali più o meno corretti. Il secondo effetto si presta a più opzioni e può derivare dall’ado­zione di sistemi maggioritari a turno unico, di sistemi maggioritari a doppio turno, oppure di sistemi proporzionali fortemente corretti. Mentre, tuttavia, è almeno relativamente semplice rendere maggiormente rappresentativo un sistema a due partiti che comprime forti minoranze – basta introdurre il doppio turno o sistemi in varia misura proporzionali e le minoranze rifioriscono – è assai più arduo e complesso ridurre la frammentazione partitica per produrre la governabilità. I partiti, infatti, solo in parte si lasciano comprimere completamente. In questi casi, dunque, è molto difficile trovare la giusta misura. E le cure rischiano quasi sempre di essere estreme e potenzialmente dannose (se ad esempio si adotta brutalmente il maggioritario secco, che fa strage dei partiti medi e piccoli, in un sistema multipartitico) oppure poco efficaci (se si adottano sistemi proporzionali non sufficientemente corretti, che lasciano sopravvivere beatamente troppi piccoli partiti).   7. UNA NUOVA LEGGE ELETTORALE PER L’ITALIA È alla luce dei principi e dei meccanismi che abbiamo indicato che sarà opportuno «decifrare» il dibattito sulle riforme elettorali che si sta accendendo in Italia tra le principali forze politiche. Tenendo naturalmente presente che tali principi e meccanismi possono essere «ibridati» a piacere, anche se con effetti non sempre prevedibili e/o auspicabili. In linea di massima, il grande problema che la politica italiana si è trovata ad affrontare negli ultimi decenni è stato quello della «governabilità», senz’altro robustamente aggravato per gran parte dell’età repubblicana (1948-1992) – insieme a molti altri fattori che non possono essere qui richiamati – dall’adozione di una sistema elettorale proporzionale tendenzialmente puro. Per tentare di sciogliere questo problema, negli ultimi vent’anni sono state elaborate e adottate due diverse legislazioni elettorali: nel 1993 il cosiddetto «Mattarellum» e nel 2005 il cosiddetto «Porcellum». Il primo ha introdotto uno strano e complicatissimo ibrido di maggioritario e di proporzionale, prevedendo da un lato di attribuire il 75% dei seggi di Camera e Senato sulla base di collegi uninominali e sulla formula del turno unico e riservando dall’altro il residuo 25% dei seggi a un riparto proporzionale in varia misura corretto. Il secondo, invece, ha reintrodotto un sistema di tipo proporzionale basato sulle circoscrizioni plurinominali, ma fortemente corretto con i meccanismi della soglia di sbarramento e del premio di maggioranza. Senza entrare nei dettagli, possiamo dire che, in entrambi i casi, queste legislazioni elettorali hanno funzionato poco e male rispetto alla questione della governabilità. Il Mattarellum non è riuscito a ridurre in modo significativo la frammentazione del sistema dei partiti. E anche se ha favorito il dispiegamento di una logica bipolare, non è servito a ridurre – soprattutto nel 1994 e nel 1996, un po’ meno nel 2001 – l’instabilità delle coalizioni parlamentari e dei governi. Il Porcellum, dal canto suo, ha funzionato malissimo nel 2006 e assai meglio nel 2008, quando ha finalmente prodotto un chiaro vincitore della competizione elettorale. Si è rivelato però del tutto inefficace nel 2013, quando all’Italia bipolare del Popolo della Libertà e del Partito democratico è subentrata, con lo straordinario successo del Movimento 5 Stelle, una nuova e inedita Italia tripolare, ingovernabile al massimo grado, se non con una innaturale «grande coalizione» di centro-sinistra e centro-destra. È in questo quadro che il Porcellum – dichiarato peraltro incostituzionale dalla Consulta – è diventato improvvisamente «inagibile». Ed è in questo quadro che ha preso piede l’idea di una nuova riforma elettorale, che possa governare un sistema politico in cui si trovano a convivere tre grandi minoranze non disposte, almeno in linea di principio e in casi estremi, a coalizzarsi. Si tratta di un compito estremamente arduo, che potrebbe però essere reso superfluo da radicali riorientamenti delle opzioni di voto degli italiani, quali quelli emersi dai risultati delle recentissime elezioni europee del 25 maggio 2014.
camera

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento