A questo link si trova la ricostruzione grafica della forma originale dell’epigrafe. Come si vede mancano la parte iniziale e quella centrale. Dei frammenti della prima colonna (che sono perduti) restano solo vecchie trascrizioni.
La laudatio era il discorso pubblico di elogio che un familiare teneva per illustrare le azioni e le virtù del defunto: una consuetudine delle famiglie eminenti. In origine l’onore era riservato ai maschi, ma dalla fine del II secolo a.C. si ha notizia di donne che furono celebrate così. Anzi, i tre soli esempi pervenuti fino a noi di epigrafi piuttosto estese contenenti una laudatio riguardano figure femminili.
Una di queste è appunto la “cosiddetta Turia”. Sì, perché in realtà non si conosce il nome della persona alla quale la laudatio è dedicata. Si pensò a lungo che la nostra protagonista fosse Turia, la moglie di un console rievocata in un racconto morale di Valerio Massimo e ripreso con qualche variante da Appiano (II secolo).
Questa ipotesi è stata da tempo abbandonata, ma il nome è rimasto al personaggio che, in ciò che resta dell’intestazione, è designato solo come “moglie”. Non conosciamo neppure il nome del marito, che fece trascrivere il discorso su marmo per prolungare il ricordo, attestare la propria riconoscenza e celebrare, insieme alla donna, se stesso.
Una giovane piena di ardimento
La vita di Turia negli anni giovanili fu assai movimentata. Mentre era promessa sposa (poteva forse avere quindici anni) la giovane ebbe i genitori uccisi, probabilmente da loro schiavi, e dovette lottare con grande energia per assicurare i colpevoli alla giustizia e per salvaguardare l’eredità, minacciata da vari pretendenti. Si trasferì nella casa della futura suocera e per questo atto di fedeltà si merita, nella laudatio, una speciale riconoscenza. Questa sezione dell’epigrafe presenta dettagli rilevanti per il diritto ereditario romano, che qui tralasciamo.
L’uomo che doveva diventare suo marito era allora in Macedonia con i pompeiani inseguiti da Cesare nella guerra civile (l’episodio è databile, grazie a un riferimento al violento capobanda Milone, al 48 a.C.). Trovandosi dalla “parte sbagliata”, dovette rimanere in clandestinità a lungo. In questo frangente Turia fece di tutto per appoggiarlo, procurandogli denaro, schiavi, provviste e proteggendo con decisione le proprietà di lui. Qualche anno dopo (43-42 a.C.) l’uomo ebbe di nuovo bisogno dell’appoggio di Turia, coinvolto nelle proscrizioni del secondo triumvirato, finché un atto di Ottaviano lo riabilitò. Anche in questa occasione lei gli rimase fedele, lo appoggiò sfidando i pericoli e riuscì a convincerlo a non compiere atti impulsivi.
Probabilmente il matrimonio ebbe luogo nel periodo fra le due proscrizioni.
Il marito non manca di ricordare un episodio nel quale Turia dovette sopportare una cocente umiliazione. Fu quando, ottenuta ormai la grazia da Ottaviano, che si trovava ancora lontano dall’Italia, la donna si recò dal triumviro Marco Emilio Lepido, presente a Roma, per chiederne la convalida. Lepido la umiliò come una schiava, la gettò a terra malmenandola e l’ingiuriò pesantemente. Scrive il marito: “… subisti ferite crudeli. Le mostrasti a tutti, affinché si sapesse chi era l’autore dei miei pericoli, cosa che non tardò a ricadere a suo danno. Nulla fu più efficace di quel tuo atteggiamento coraggioso, perché offristi a Cesare l’opportunità di mostrarsi clemente e mentre mi salvavi la vita facevi risaltare quella furibonda ferocia e ancor più rifulgeva la tua forza nel sopportarla.” (trad. L. Storoni Mazzolani)
Nella sfera del privato
L’unione matrimoniale durò 41 anni: il documento è databile dunque agli ultimi anni del I secolo a.C., quando Roma era ormai da tempo pacificata nel principato augusteo. I due vissero questo periodo in affettuosa consuetudine e lontano dalle vicende pubbliche.
L’ultima sezione dell’epigrafe entra nella sfera più intima della coppia. Turia e il marito speravano di avere figli, ma questa gioia fu loro negata. Nel tempo la donna si dedicò ad accogliere in casa ragazze bisognose e a procurare loro una dote: a parere di Lidia Storoni Mazzolani “un’opera di carità di cui non ho trovato riscontro in epoca pagana”.
A una donna così magnanima, che per due volte gli aveva salvato la vita, il marito non chiese il divorzio per sterilità, anche se lei si diceva disposta a essere ripudiata. In seguito Turia fece una proposta alquanto ardita: di farsi da parte perché il marito procreasse con un’altra donna, accettando poi di allevare i figli come fossero suoi. Lui rifiutò sdegnosamente, adirato, questa offerta: “… mai avrei potuto assecondarti senza mancare al mio onore”. Alla fine lei gli chiese di adottare una delle ragazze cui aveva fatto del bene e il marito scrive, nell’epigrafe, che rispetterà questa sua volontà.
La vita trascorse e alla fine l’uomo mise questa donna straordinaria su un piedistallo per sempre. Davvero straordinaria?
Il testo in latino si trova cliccando qui
Spunti per l’interpretazione
Turia è dotata di tutte le virtù che tradizionalmente erano attribuite alle matrone romane: “A che rievocare le tue virtù domestiche, la castità, il rispetto, l’amabilità, l’arrendevolezza, l’assiduità al telaio, la religione immune da fanatismo, la modestia dei gioielli, la sobrietà del vestire?” (trad. L. Storoni Mazzolani)
E tuttavia l’estensore dell’epigrafe presenta la donna proiettata in attività che nel mondo romano erano riservate ai maschi e usa per lei alcuni termini mutuati dall’uso militare: ella procurò al marito rinforzi (subsidia), lo protesse (munibat), subì ferite crudeli da Lepido (crudelibus exceptis vulneribus), fu la speculatrix e propugnatrix del marito (cioè vegliò su di lui e lo difese). Turia si mostrò dotata di virtus, di firmitas animi e di constantia (coraggio, fermezza d’animo, tenacia): virtù considerate tipicamente maschili.
Contro l’immagine tradizionale della donna che realizza le sue virtù nell’ambiente domestico, la figura di Turia è rievocata in una dimensione pubblica. Il marito, per contro, sembra volersi ritrarre in condizione di debolezza, incertezza, sconforto, perdita dell’autocontrollo in una sorta di rovesciamento dei ruoli. Rovesciamento che non è un caso isolato: simile atteggiamento si riscontra nelle lettere di Cicerone dall’esilio e nei versi delle Epistulae ex Ponto che Ovidio, dalla remota Tomi, dedica alla moglie.
La donna romana può essere elogiata con termini maschili proprio perché, comunque, è dotata in sommo grado delle virtù tradizionali femminili e non si trasforma in una sorta di virago. Solo a queste condizioni l’uomo può mostrarsi debole e insicuro. In sostanza, nel celebrare la moglie, l’uomo mette anche se stesso in buona luce, per il semplice fatto di aver saputo adornarsi di un simile gioiello.
La laudatio Turiae è un documento del periodo della restaurazione augustea dei costumi e ne porta il segno. Turia è un perfetto esempio di matrona sia nell’attività benefica, sia nella sua azione volta a porre rimedio all’infertilità del matrimonio (le leges Iuliae emanate da Augusto penalizzavano le famiglie senza figli, ma non incisero realmente sul calo della natalità, soprattutto nelle famiglie della classe dirigente). Come molte donne della tarda repubblica e prima età imperiale, Turia ebbe uno spazio nella vita pubblica; il giudizio sul suo comportamento continuava però a basarsi sulle regole della tradizione e sulle virtù private della donna.
Riferimenti bibliografici
Lidia Storoni Mazzolani, Una moglie, Sellerio editore, Palermo 1982; contiene la traduzione integrale della laudatio, qui utilizzata, condotta sul testo critico di M. Durry, Parigi 1950.
Emily A. Hemelrijk, “Masculinity and Femininity in the Laudatio Turiae”, in Classical Quarterly 54,1 (2004).
A questo link si può leggere, in latino, l’aneddoto dai Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo (VI, 7,2) riferito a Turia
Immagine di apertura: William Adoplhe Bouguereau, "Elegy" (via Wikimedia Commons)
Immagine per il box: frammento della Laudatio Turiae (via Wikimedia Commons)