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Nuovo Cinema Paini

Cinema e tempo

Un autore cinematografico è uno scultore del tempo, scriveva il regista e sceneggiatore russo Andrej Tarkovskij. Nella rassegna di Luigi Paini vediamo cinque diverse declinazioni del tempo nelle opere di Fred Zinnemann, Aleksandr Sokurov, Ingmar Bergman, Andrej Tarkovskij e Harold Ramis

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“Tempo… Tempo… Cos’è il tempo? In Svizzera si fabbrica, in Francia è fermo, in Italia lo sprecano, in America dicono che è denaro e in India non esiste. Sai che ti dico? Per me il tempo è una truffa”.

Peter Lorre in Il tesoro dell’Africa (dialoghi di Truman Capote)

"In che cosa consiste allora l’essenza del lavoro di un autore nel cinema? Convenzionalmente lo possiamo definire uno scolpire il tempo. Analogamente allo scultore che prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie tutto ciò che è superfluo, così il cineasta dal “blocco del tempo”, che abbraccia l’enorme e inarticolata somma dei fatti della vita, taglia fuori e getta via ciò che non serve, lasciando solo ciò che deve divenire un elemento del futuro film, ciò che dovrà costituire una delle componenti dell’immagini cinematografica".

Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo 

Mezzogiorno di fuoco, Fred Zinnemann (Usa 1952)

Un western? Ma perché, che c’entra? Il fatto è che “Mezzogiorno di fuoco” non è un western “normale”. O meglio: dallo sceriffo ai banditi, dai cavalli alla ferrovia, i segni distintivi del genere ci sono tutti, ma proprio tutti. Quello che fa la differenza, e che giustifica l’inserimento in questo elenco, è il modo in cui viene trattato il tempo. Quello del film e quello dei fatti raccontati dal film. C’è infatti un’esatta coincidenza: tanto dura la pellicola, tanto dura la storia. Dal matrimonio dello sceriffo, alle 10,30 del mattino, fino allo scontro finale con i banditi, poco dopo lo scoccare del fatidico mezzogiorno del titolo (“High noon” in originale).  Di solito, sul grande schermo, non succede così. La regola è la condensazione del tempo. Nelle due ore canoniche di spettacolo si concentrano avvenimenti  la cui durata può essere la più varia possibile: un giorno, una settimana, un anno, uno o più secoli, addirittura millenni. Grazie al montaggio, il cinema taglia e cuce, creando un suo proprio tempo, il tempo della narrazione. Qui, con lo stesso procedimento di “taglia e cuci” si compie un’operazione uguale e contraria: il tempo condensato è quello delle riprese, che ovviamente sono durate diverse settimane. Grazie al montaggio, tutto è stato rimesso insieme “creando” la perfetta coincidenza tra tempo dei fatti e tempo della narrazione. Per non far mai perdere il filo allo spettatore, viene spesso inquadrato qualche orologio: così diventa ancora più chiaro lo scorrere dei minuti, con la suspense che cresce esponenzialmente all’avvicinarsi del mezzogiorno. Un vero e proprio gioco di prestigio, un “tempo scolpito” al servizio dello spettacolo. 

 

Arca russa, di Aleksandr Sokurov (Russia 2002)

Ed ecco il contrario speculare di “Mezzogiorno di fuoco”. Nel western, un “tempo spezzatino” del racconto che ricostruisce il tempo lineare della realtà; qui un unico, incredibilmente lungo piano sequenza che attraversa letteralmente le epoche, portandoci avanti e indietro sull’ottovolante dei secoli. Sokurov rinuncia al montaggio tradizionale, al taglia e cuci. Il piano sequenza è infatti una inquadratura che prosegue tutta di fila, senza stacchi. Dunque, per definizione, ci dovrebbe essere coincidenza assoluta tra la durata del film e quella del racconto (un esempio tipico è “Nodo scorsoio” di Alfred Hitchcock). In questo caso, invece, il regista russo gioca in modo virtuosistico, immettendo i cambi temporali direttamente nelle varie fasi dell’inquadrature infinita. Tutto il film è girato nelle sale dell’Hermitage di San Pietroburgo, con brevi uscite all’esterno. A partire dai capolavori artistici nell’immenso palazzo-museo,  lo spettatore viene condotto in un lungo viaggio attraverso la storia russa, dai tempi degli zar Pietro il Grande e Caterina a quelli della Rivoluzione bolscevica, fino ai giorni nostri. Personaggi che entrano e escono, in una sorta di vorticoso balletto, tra ansie e speranze, guerra e pace, miseria e splendore. Certo, non è facilissimo seguire tutti gli snodi del racconto, soprattutto per uno spettatore non russo. Anche la forma narrativa può risultare ostica, perché il montaggio tradizionale viene incontro al nostro bisogno di chiarezza, di fluidità narrativa. Ma ancora una volta il tempo diventa materia plasmabile, creta che prende forma grazie alla maestria del regista. Fino al grandioso ballo finale, dove tutto si mischia e tutto prende senso, nell’eterno, infinito scorrere della Storia.

 

Il posto delle fragole, Ingmar Bergman (Svezia 1957)

Il passato ritorna. Il cinema è dotato di uno strumento straordinario per dare vita alla realtà che non c’è più: il flashback. Ci sono vari modi per farlo accettare allo spettatore: di solito una dissolvenza, ma ci possono stare anche un cambio di colore o uno sguardo prolungato nel vuoto o altro ancora. Dal presente narrativo, in un attimo e come per magia, si passa a un tempo perduto, che acquista la stessa consistenza, riemergendo in modo prepotente dalla memoria. È quanto accade all’anziano protagonista. Ha esercitato per tutta la vita la professione di medico e ora, a quasi ottant’anni, deve recarsi in una lontana università per ricevere un prestigioso premio alla carriera. Decide all’ultimo momento di partire in auto, e non in aereo come previsto. Il viaggio diventa così molto più lungo, dandogli la possibilità di soffermarsi in luoghi in cui ha passato parti importanti della sua vita. La casa di vacanze della famiglia, ad esempio, ai bordi di un lago. Qui tornano alla superficie  con forza i primi ricordi. L’ora del pranzo in comune, il primo amore, le illusioni della giovinezza, gli inevitabili screzi e la gioia di ritrovarsi tutti insieme. In realtà, i flashback costruiti da Bergman sono in parte atipici: infatti in essi è presente, come testimone muto e non visto, l’anziano professore, che si ritrova così, fisicamente, sui luoghi dei ricordi, dando loro una consistenza ancora maggiore. Il viaggio nello spazio e nel tempo continua, rompendo la crosta burbera che ha finito per seppellire il vero animo del protagonista (un orologio senza lancette, apparso in un incubo, diventa il simbolo di questo fluttuare temporale). Il confronto con il se stesso che è stato, insieme al riemergere di ferite non del tutto rimarginate, potrebbe avere un impatto molto negativo su di lui. E invece, nella ritrovata consapevolezza trova posto un senso di pace, un’accettazione della vita (e della morte ormai prossima) finalmente rasserenata.  

 

Lo specchio, di Andrej Tarkovskij (Urss 1974)

Eccolo, lo scultore del tempo. Lo ha teorizzato tutta la vita, lo ha messo in pratica in ogni film, ma soprattutto in questo. “Lo specchio” è una macchina del tempo: il passato e il presente, i ricordi e i sogni, la realtà e la sua trasfigurazione. Una donna, la stessa donna, che diventa alternativamente moglie e madre; un bambino e l’uomo in cui si trasformerà anni dopo; l’angoscia terribile degli anni dello stalinismo, quando anche un errore involontario poteva significare la morte o l’esilio in Siberia. Storia individuale, e insieme storia di un popolo e di una nazione. Il risultato è un film tanto affascinante quanto, a una prima visione, ermetico. Occorre allenamento per apprezzare un’opera di Tarkovskij, uno dei massimi registi della storia del cinema. Le sue pellicole non si curano della narrazione a cui siamo abituati, cercano altre vie. Vie poetiche, soprattutto, fatte di allusioni e visioni, analogie e sensazioni. Proprio come le meravigliose poesie del padre del regista, Arsenij, che accompagnano le immagini più suggestive. Bisogna lasciarsi andare al flusso, rinunciare a “capire tutto”, farsi portare per mano dal regista. Così, a ogni nuova visione, il nostro sguardo si arricchisce, penetra nei riferimenti, coglie i segreti più profondi dell’anima russa. E il tempo diventa materia plasmabile, nervatura della nuova realtà che si fa sotto i nostri occhi. Se il cinema di poesia è possibile, Tarkovskij ne è di sicuro il massimo interprete.

  

Ricomincio da capo, Harold Ramis (Usa 1993)

A Hollywood il tempo è di casa. Qui lo si ri-costruisce ogni giorno, in ogni film. Tempo dilatato, tempo condensato, tempo reale, tempo di realizzazione, loop temporali (soprattutto, questi ultimi, nei film di fantascienza). Non c’è, non ci può essere pellicola che non abbia a che fare con il tempo. Ma ci sono film che del tempo hanno fatto e fanno il loro argomento principale. La serie di “Ritorno al futuro”, tra i mille esempi. Oppure questo “Ricomincio da capo”, che sul nostro sempre difficile rapporto con il tempo prova a scherzarci sopra. Nell’annuale Giorno della marmotta, nel piccolo paese di  Punxsutawney, in Pennsylvania, succede un fatto davvero fuori dal comune. Il meteorologo televisivo Phil Connors, che è stato inviato sul luogo per un servizio, si risveglia ogni mattina alle 6,00 in punto… del giorno prima! E via di seguito, ogni giorno la stessa cosa. Una prigione temporale lo ingabbia senza scampo: ogni mattina suona la sveglia, e da quel momento in poi si ripetono sempre le stesse cose delle ventiquattro ore precedenti. Quale sarà mai la causa del maleficio? E soprattutto, come uscirne? Apologo morale con contorno di magia: la vita di Phil è arrivata, in realtà, a un punto morto, e l’uomo ha un bisogno estremo di darsi una mossa, di cambiare il suo modo di pensare e di affrontare gli altri e il mondo. Un blocco del tempo esterno che riassume in sé l’esistenza “congelata” del protagonista. Che dunque non potrà che intraprendere, in puro stile hollywoodiano, un tormentato percorso di maturazione. Liberandosi così, infine, della maledizione del tempo circolare, metafora della sua difficoltà ad accettare la vita.

(Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock)

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