La tolleranza è un tema talmente ampio e complesso, e il suo significato profondo è talmente abusato che, forse, l’unico modo per cominciare a parlarne è far mettere le cose in chiaro a Umberto Eco: https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2018/12/Umberto-Eco-a-scuola-di-tolleranza-2468f7c3-2eaa-4b38-841e-ed55556ce439.html
Eco in realtà parla di intolleranza. Dice che l’intolleranza è l’incapacità di regolare la nostra naturale reazione al diverso. Dunque, per contrasto, possiamo dedurre che la tolleranza sia la capacità che abbiamo di regolare la nostra reazione al diverso, cioè la facoltà di comprenderlo e accettarlo. In questo senso, la tolleranza è qualcosa a cui ci si educa – insomma la si impara, non è innata. E forse non è nemmeno qualcosa di stabile, ma si modifica di epoca in epoca, a seconda della sensibilità e degli eventi che modificano il nostro sguardo sul mondo.
Esistono però delle formule statiche che, per così dire, sanciscono cosa può essere tollerato e cosa no. Prendete per esempio l’articolo 528 del Codice penale, quello dedicato a Pubblicazioni e spettacoli osceni. Dice: «Chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 103».
Si tratta di un vecchio articolo, che a partire dal 2016 è stato in parte riveduto depenalizzando la maggior parte delle cose nominate nell’elenco: gli scritti o gli spettacoli ritenuti osceni non vengono più considerati reati penali – ma semmai illeciti amministrativi. Insomma, le maglie della censura si sono un po’ allargate o, per rimanere nel tema di questo numero di Aula di lettere, la soglia di tolleranza si è un po’ alzata. Rimane però un fatto: esistono anche oggi opere che urtano il comune senso del pudore e vengono punite in sede legale.
Quelli che seguono sono alcuni dei momenti della recente storia italiana in cui i libri sono andati a processo per i loro contenuti. Dico subito che, nella stragrande maggioranza dei casi, autori e autrici non sono stati condannati e i loro libri, ritirati dalle librerie durante i processi, sono regolarmente tornati sugli scaffali; ma questo non significa che la censura non sia esistita o abbia smesso di esistere: significa piuttosto che esistono temi, e modi di trattarli, che fanno scandalo e sono, ciascuno a loro modo, considerati intollerabili.
Omosessualità. Busi e Tondelli alla sbarra
L’ultimo grande processo italiano in ordine di tempo lo ha subito tra il 1989 e il 1990 Aldo Busi, scrittore immenso, autore di un pugno di libri straordinari: uno di questi, Sodomie in corpo 11, è andato alla sbarra per oscenità. Pubblicato nel 1988, Sodomie è uno strano libro di viaggio, geniale e fluviale, che reinventa la lingua italiana ma lo fa, secondo chi presentò alla procura di Trento un esposto per oscenità, in modo «indecente, immorale, di inaudita depravazione». Si tratta, sempre secondo l’esposto, di un’opera «sudicia, schifosa e perversa, veicolo di indiscussa corruzione (con danno morale irreparabile per gli adolescenti nelle cui mani può facilmente capitare)». Vengono estratti dal libro, e letti davanti alla Corte, venti passi considerati l’apice della depravazione. Ma che cosa ha scritto mai, Aldo Busi, di tanto insopportabile? Ha scritto degli incontri sessuali del protagonista, tutti di matrice omosessuale, e l’ha fatto in modo esplicito. Apriti cielo. Ci sono alcuni momenti del processo, a cui Busi partecipò oserei dire perfino divertendosi, che vale la pena riportare. Eccolo che, rivolgendosi al giudice, pone una questione cruciale: «Vorrei sapere un giurista fino a che punto può stabilire che cosa è arte»; e più avanti: «Ma io non capisco che cosa significa “esasperato sessualismo fine a sé stesso”? Che cos’è (...)? Cosa vuol dire “rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi”?» - e perché, viene da chiedersi, uno non può metterle in un libro, se hanno senso per la storia, per l’argomento, per la visione del mondo del suo autore?
Pochi anni prima un altro grande scrittore, Pier Vittorio Tondelli, era stato processato più o meno per gli stessi motivi – la rappresentazione di una serie di rapporti sessuali di stampo omosessuale – in un altro libro capitale per la letteratura italiana degli ultimi quarant’anni, Altri libertini. Denunciato prima da un circolo cattolico milanese e poi da altri movimenti di analoga provenienza sparsi un po’ per tutta Italia, Altri libertini era il libro d’esordio di Tondelli, e fu accusato di mettere in scena «rapporti sessuali contronatura» - e sì, sembra il Medioevo e invece sono gli anni Ottanta. Il libro conteneva inoltre delle bestemmie, per ben 177 volte (le hanno contate!) nominava, in modo volgare, l’organo sessuale maschile, e parlava senza filtri di tossicodipendenza: il libro era dunque accusato di blasfemia, di pornografia e di essere un’opera in cui «il lettore viene violentemente stimolato verso la depravazione sessuale e il disprezzo della religione cattolica» - così come si legge nel decreto con cui l’opera venne provvisoriamente ritirata dalle librerie. Il processo si concluse con la vittoria di Tondelli e il reintegro del volume nei circuiti librari.
Queste vicende dicono, da un lato, che esiste nel nostro Paese un sostrato profondo di bigottismo; dall’altro, con le assoluzioni finali, dicono però molte altre cose: anzitutto, come si domandava Busi, che non è la Legge a stabilire che cosa, in un’opera d’arte, è morale o no; di più, che non si può decidere in un tribunale che cosa sia artistico e che cosa no: lo decide il tempo, l’accoglienza degli uomini e il fatto che un’opera entri o meno a far parte del linguaggio e dell’immaginario – e in questo senso Altri libertini e Sodomie in corpo 11 sono due opere capitali: hanno captato le modificazioni del linguaggio, del costume, e le hanno inserite, in modo violento e profondamente letterario, nel discorso culturale italiano. Evviva.
Moltissime sono le opere della letteratura che sono state processate, e per molte di esse risulta difficile, oggi, capire il motivo. Madame Bovary di Gustave Flaubert (1856) fu accusato di immoralità e oscenità per via di certe descrizioni ritenute scandalose: ma io oggi vi sfido a leggere il romanzo e a trovare dove siano. La morale è cambiata e con essa il senso del pudore: ciò che faceva scandalo nell’Ottocento non lo fa più, ciò che era inaccettabile negli anni Ottanta del Novecento fa parte ormai dei nostri discorsi quotidiani.
Joyce e il suo Ulisse subirono, di qua e di là dell’Atlantico, vari processi per pornografia. Il romanzo era accusato di “voler eccitare il lettore”, soprattutto per via di certi passaggi del monologo finale di Molly Bloom, in cui la donna, in un flusso di coscienza inarrestabile, racconta, tra le altre cose, di adulterî, desideri e fantasie sessuali di varia natura e, in generale, parla a briglia sciolta. Oggi, un secolo dopo, a nessuno verrebbe in mente di accusare Ulisse di pornografia: la cosa però interessante è che, a guardare anche solo questi quattro casi velocemente elencati, si vede come la censura, nelle democrazie, abbia storicamente riservato una particolare attenzione a come vengono rappresentati nei libri il corpo umano, i suoi desideri e i modi attraverso cui vengono soddisfatti. Sembra che la moralità, o qualcosa che le assomiglia, abbia come metro di misura il modo in cui i personaggi gestiscono le loro voglie: in un romanzo si può uccidere un uomo (e ci credo: altrimenti non esisterebbero i gialli), ma se si fa del sesso, specialmente se omosessuale, c’è il rischio che qualcuno faccia partire una denuncia.
Ulisse vinse tutte le cause in tutti i Paesi – Italia compresa – dove gli furono intentate.
Piccola storia del processo all’Ulisse: https://www.ilfoglio.it/cultura/2022/03/02/news/l-ulisse-di-joyce-censurato-ancora-prima-di-essere-pubblicato-3633858/
I libri che non ce l’hanno fatta
Ho scritto poco sopra che, nella stragrande maggioranza dei casi, i libri vincono le cause intentate contro di loro. Ma ci sono delle eccezioni. Pier Giuseppe Murgia pubblicò nel 1960, a vent’anni, Il ragazzo di fuoco: anche lui fu accusato di pornografia. 8 mesi di reclusione e 20.000 lire di multa furono la pena inflitta ad autore ed editore (Piero Sugar, che aveva da poco fondato la SugarCo e, in seguito, sarebbe diventato, insieme a Caterina Caselli, uno dei più grandi produttori discografici italiani). Il libro fu accusato di «enfasi, narcisismo, vacuità e povertà di contenuto, tono grigio e uniformità di descrizione, modo sciatto di esposizioni, ricerca volutamente imposta di vocaboli volgari, assenza di qualsiasi episodio che parli concretamente, e non in superficie, al cuore e all’intelletto, assenza di finalità etiche, abbondanza di lubricità e sconcezze non giustificate né giustificabili in funzione artistica; manifesto richiamo all’eccitamento dei sensi». Insomma un libro brutto e sporcaccione. Sembra una recensione, e invece è un estratto della sentenza – sarebbe interessante sentire, a questo proposito, l’opinione di Aldo Busi.
Ma forse il caso più eclatante è quello di Milena Milani, autrice di un romanzo «altamente offensivo del senso del pudore (...) e quindi osceno, per la descrizione dei rapporti sessuali e anche omosessuali vissuti da una ragazza ossessionata dalla continua ricerca della vibrazione d’amore»: La ragazza di nome Giulio è il titolo di quest’opera, pubblicata nel 1964, che fece uno scandalo enorme – c’era il sesso, descritto in modo esplicito, ma soprattutto era una ragazza a farlo e una donna a scriverlo!
Il libro, amato da grandi scrittori come Goffredo Parise e difeso in tribunale nientemeno che da Giuseppe Ungaretti, affronta alcuni tabu e lo fa in modo diretto, esplicito: per esempio la masturbazione, soprattutto femminile; un’evirazione, che Jules (questo è il vero nome della protagonista) compie con un coltello contro un amante occasionale; ma a destare scandalo, e di fatto a condannare l’opera e la sua autrice, fu soprattutto la descrizione dettagliata della perdita di sangue mestruale, cosa che non era mai stata fatta in letteratura: le mestruazioni erano un tema di cui all’epoca non si poteva parlare in pubblico – e la sentenza di colpevolezza, a suo modo, spiega perché: «L’episodio su cui più si diffonde è proprio quello più segreto e intimo per una donna, il passaggio dall’infanzia alla pubertà, descritto come un evento nazionale e concluso con una trivialità (...) che disgusterebbe la più depravata prostituta [sic]».
Milani fu condannata a sei mesi di reclusione e a una multa di 100.000 lire. Era il 1966. Quattro anni più tardi, da questo romanzo il regista Tonino Valerii trasse un film, che però non ebbe grande fortuna.
La storia della Ragazza di nome Giulio e del processo: https://letture.wordpress.com/2012/03/08/donne-e-letteratura-1964-lo-scandalo-del-libro-la-ragazza-di-nome-giulio-di-milena-milani/
Chiudo pagando un debito. Ho tratto la maggior parte delle notizie di questo articolo da un libro, documentatissimo e divertito, pubblicato nel 2013 da Aragno: si tratta di Maledizioni. Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi anzi domani, di Antonio Armano.
Qui il booktrailer, con la voce dell’autore: https://www.youtube.com/watch?v=YcbhaiyMLUE
Crediti immagine: Madame Bovary, Charles Léandre, 1931 (Wikimedia Commons)