Non esiste nel mondo antico un lessico specifico corrispondente alla moderna nozione di tolleranza. Questa mancanza ci racconta qualcosa di importante: non c’erano parole per la tolleranza (in una cultura in cui era ricchissima la varietà semantica per concetti filosofici e astrazioni) forse perché non se ne sentiva la necessità. L’idea di tolleranza si costruisce a partire dalla sua negazione, e a essa rimanda: è dalla intolleranza che nasce l’esigenza della accettazione del diverso da sé in ambito religioso, sociale, culturale, ecc. Non è un caso che la nozione di tolleranza modernamente intesa sorga dopo i secoli bui delle guerre di religione che hanno funestato l’Europa del Cinquecento e Seicento, o dopo il sanguinosissimo processo di conquista del Centro e Sud America da parte dei conquistadores europei a danno delle popolazioni amerindie. Anche in quest’ultimo caso, la presunta superiorità di un modello culturale e religioso si è tradotta in prevaricazione violenta e sterminio. Nascerà così l’esigenza di un effettivo riconoscimento, da parte dell’autorità politica, della pari dignità di tutte le religioni e confessioni, come affermato nella Lettera sulla tolleranza di John Locke. Oggi per noi tolleranza è «atteggiamento di accettazione e rispetto verso idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie», ma anche «capacità di tollerare ciò che potrebbe rivelarsi sgradevole» (Dizionario Zingarelli 2022).
È a partire dai saggi di Spinoza, Locke e Voltaire che si teorizza la nozione di tolleranza nella sua prima accezione, cioè come fondamento etico-politico su cui costruire una convivenza basata sul rispetto della diversità. D’altra parte, nella moderna nozione di tolleranza sembrano convivere il positivo riconoscimento dell’alterità in quanto tale e l’implicita ammissione della propria superiorità. Il termine tolleranza oscilla infatti tra la dimensione passiva della sopportazione/accettazione del male e la disponibilità a riconoscere la dignità dell’altro in quanto altro. Questa dialettica conserva sempre una sottile asimmetria; come suggerisce Maurizio Bettini, la tolleranza «presuppone non la piena legittimazione delle opinioni altrui, ma una qualche forma di “disapprovazione” nei confronti di esse (se non anche di chi le professa), sia pure accompagnata da atteggiamenti dichiaratamente pacifici».[1]
Il verbo «tollerare» e il sostantivo «tolleranza» derivano dal latino: tollere è «portare», «sopportare», detto di fatiche, dolori, malattie. L’etimologia del termine ha dunque a che fare, in origine, solo con l’idea di sopportazione (nella seconda delle due accezioni di tolleranza citate dallo Zingarelli). Di fronte alle avversità della vita, saggio è colui che, con costanza e virtù, è in grado di resistere pazientemente alla sorte. Tolleranza è infatti anche patientia (da patior), termine che indica sia la capacità di resistere a situazioni avverse, sia la mollezza d’animo e la debolezza (come nel caso della servilis patientia denunciata da Tacito in Annales 14.26.1), mentre il verbo patior conserva, oltre al significato di «sopportare», quello di «permettere», «ammettere» anche ipotesi che potrebbero risultare controverse o desuete (come l’idea che «l’oratore possa essere allo stesso tempo anche filosofo», in Cicerone, De or. 3.143). Infine, in alcune sue sfumature è il verbo indulgere quello che probabilmente si avvicina di più all’attuale idea di tolleranza, poiché introduce l’atteggiamento di chi accondiscende ad alcune concessioni.
Nel greco antico, a patientia e patior corrispondono ὑπομονή e ὑπομένω. Il verbo ὑπομένω (composto da ὑπό, «sotto», «dietro», e μένω, «rimango») significa alla lettera «restare fermi», perdurare in una condizione di paziente sopportazione dei patimenti; analogamente, il sostantivo derivato υ͑πομονή, costruito col genitivo oggettivo, esprime la capacità di resistenza all’interno di una condizione ostile, in senso fisico o psicologico ed emotivo. Nella sentenza di Democrito, «chi affronta volontariamente le fatiche si prepara a tollerare, come se fosse più leggera, anche la fatica che si deve sopportare pur non volendolo» (68 B 240 DK). Anche il verbo καρτερέω (a sua volta composto da καρτ/κρατ, che presenta la stessa radice di κράτος, «forza») evoca la resistenza in battaglia, la coraggiosa sopportazione delle avversità, l’accettazione dell’ineluttabile, così come ἀνέχω (da ἀνά, «su», «in alto», e ἔχω, «ho», «tengo»). Mentre, tuttavia, il composto di μένω suggerisce l’idea di una staticità rocciosa e quasi immobile, nel verbo ἀνέχω, ampiamente attestato nei poemi omerici, sembra contenuta l’immagine del sollevarsi, quasi che la sopportazione implicasse uno sguardo dall’alto, una consapevolezza divenuta più matura in virtù della sofferenza prolungata. Così si tollerano mali, affanni, schiavitù, si sopporta a fatica il dolore di coloro che amiamo (Il. 5.895, Od. 19.27) e, soprattutto, si resiste nelle avversità (Il. 1.586, 5.285), come nel caso di Odisseo «che molto sopporta», secondo l’epiteto πολύτλας (composto da πολύ, «molto» e *τλάω, «sopporto», cfr. latino tollo, tollero). Frequentissimo nell’Odissea, πολύτλας definisce l’eroe che, più di ogni altro, ha saputo accettare e sopportare a lungo dolori e patimenti.
Pur con cautela e astenendoci da una astorica idealizzazione della cultura antica, è indubbio che il mondo greco-romano abbia potuto evitare, proprio in virtù della sua tradizione politeistica, le forme di intolleranza più violenta tipiche delle religioni monoteiste. Nel mondo greco, per esempio, i culti misterici come quelli orfici ed eleusini convivevano accanto alla religiosità olimpica tradizionale. Il processo a Socrate, condannato a morte con l’accusa di empietà per avere introdotto nuove divinità e aver abbandonato gli dèi della polis, fu in realtà un processo politico, che va letto nel quadro della restaurazione del regime democratico, fortemente indebolito dopo la parentesi dei Trenta tiranni; non essendo stato fissato alcun canone di ortodossia nell’Atene del tempo, il procedimento per empietà (δίκη ἀσεβείας), di cui Socrate stesso fu vittima, deve essere considerato un vero e proprio processo politico. Analogamente possiamo riconoscere come nel mondo romano alcuni casi di repressione religiosa (si pensi ai Bacchanalia) rispondevano più a motivazioni politiche che cultuali, poiché si inserivano in una logica di tutela della res publica e delle leggi che guidavano la comunità. Il paganesimo politeista è, d’altra parta, il primo sistema religioso, sociale, politico-culturale a garantire la praticabilità della tolleranza. A proposito della ricorrenza del termine nel pensiero cristiano, possiamo osservare come Agostino sembri riconoscere l’importanza della tolleranza nei confronti di eretici e scismatici: tuttavia, prendendo a modello San Paolo che accetta i falsi fratelli (falsorum fratrum tollerator) e assicura in tal modo l’unità della Chiesa, la tolleranza viene presentata non tanto come accoglimento del valore in sé di altre professioni di fede, quanto in nome del principio cristiano della carità.
Il valore che nell’antichità risponde meglio alla moderna nozione di tolleranza è semmai quello della interpretatio, cioè una mediazione interpretativa, un processo di apertura e accettazione di nuove divinità, attraverso il confronto con le proprie. Questa attitudine è particolarmente evidente nel mondo romano che, nell’incontro con divinità straniere, tende non a respingerle, quanto piuttosto a rileggerle anche linguisticamente all’interno del proprio contesto religioso-culturale. Pensiamo alle testimonianze dello storico Tacito a proposito delle divinità del pantheon egizio con cui i romani erano venuti a contatto: pur con tutta la cautela di una ipotesi congetturale, il dio Serapide viene associato a Esculapio o, secondo altri, a Giove (Historiae 4.84.5). Il processo dell’antica interpretatio è dunque un atteggiamento di curiosità che, pur nell’ottica di una normalizzazione o di una traduzione dei valori stranieri nel linguaggio dei valori dominanti, rivela il dialogo costante tra le divinità romane e quelle straniere, come mostra anche l’acquisizione/rinominazione delle divinità greche nel pantheon romano. Come scrive Voltaire nel suo Trattato sulla tolleranza: «I popoli di cui la storia ci ha lasciato una qualche debole conoscenza hanno tutti considerato le loro differenti religioni come dei nodi che li univano insieme: era una associazione del genere umano. Vi era una specie di diritto di ospitalità tra gli dèi come tra gli uomini. Quando uno straniero arrivava in una città, cominciava con l’adorare gli dèi del luogo. Non si mancava mai di venerare anche gli dèi dei propri nemici. I troiani rivolgevano preghiere agli dèi che combattevano per i greci».[2]
Il termine che forse, meglio di altri, esprime una attitudine rispettosa verso idee e opinioni altrui è il verbo respicere. «Rispetto» deriva infatti da re-specto/re-spicio, ossia «guardo (specto) indietro (re)» o «di nuovo», etimologicamente sovrapponibile a «ri-guardo», e indica un ri-guardarsi nell’altro, suggerendo che, nel rispetto, il rispettante e il rispettato si collocano sullo stesso piano. Tolleranza e rispetto sembrano presentare una finalità analoga (l’accettazione altrui), a partire però da presupposti diversi: mentre il rispetto riconosce l’uguaglianza dei valori in dialogo, cioè la loro pari dignità, la tolleranza tende a eliminare la disuguaglianza originaria attraverso un livellamento delle differenze. Il rispetto è dunque accoglimento dell’altro sulla base di un principio di uguaglianza e reciprocità; la tolleranza è invece accettazione dell’altro nell’ottica di un pareggiamento delle differenze, a partire dal proprio sistema di valori.
[1] M. Bettini, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Il Mulino, Bologna 2014, 84,
[2] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, tr. e cura di L. Bianchi, Feltrinelli, Milano 2003, p. 63.
Crediti immagine: Odisseo e Polifemo, Arnold Böcklin, 1896 (Wikimedia Commons)