«Il denaro non dà la felicità. Figuriamoci la miseria». Così parlò Woody Allen, un autore che praticamente in tutti i suoi film (e sono più di 50!) ha affrontato il mistero della felicità. Molte volte l’ha fatto con disincantata ironia, ma spesso si è dovuto arrendere alla tragedia dell’apparente vittoria del suo esatto, speculare contrario: l’infelicità. Felicità/infelicità, un sistema binario impossibile da scindere. In generale, il cinema si è visto, fin dal suo inizio, come una sorta di piccolo antidoto all’infelicità, e quindi come un possibile surrogato di felicità. Un film di Stanlio e Ollio, le comiche di Charlot, le opere dei grandi autori della commedia hollywoodiana hanno offerto agli spettatori una pausa, un “momento di oblio” dalle preoccupazioni della vita quotidiana. Per decenni, ai tempi d’oro della sala cinematografica, voleva dire per i nostri bisnonni, nonni e genitori fare ogni volta un piccolo “contratto”: il prezzo del biglietto in cambio di “quattro passi tra le nuvole”, come recita il titolo di uno straordinario film italiano diretto da Alessandro Blasetti nel 1942 (notare la data, in piena Seconda guerra mondiale!). Andiamo allora alla scoperta di alcune di queste pellicole, citando ancora una volta Woody Allen, questa volta in versione molto, molto più seria: «Siamo tutti felici, se solo lo sapessimo».
È arrivata la felicità, di Frank Capra, Usa 1936
Mettiamo subito “all’opera” la prima affermazione di Woody Allen: i soldi danno o non danno la felicità? Il giovane e ingenuo protagonista del capolavoro di Capra, Longfellow Deeds, se ne sta tranquillo nella sua cittadina di campagna quando arriva da New York una notizia bomba: uno zio di cui non aveva mai sentito parlare gli ha lasciato in eredità la somma enorme di 20 milioni di dollari. Tutta la sua vita ne viene stravolta, visto che per prima cosa deve trasferirsi dalla campagna alla “tentacolare” metropoli. E non dimentichiamo che si tratta di una persona semplice, senza esperienza del mondo moderno e delle sue trappole. Che sono, purtroppo, molte, e che rischiano di rovinargli completamente l’esistenza. Il suo caso, infatti, è talmente eclatante da finire sotto i riflettori dei giornali. Una bella reporter senza scrupoli si mette alle sue calcagna, facendogli credere di ammirarlo ma in realtà prendendolo ferocemente in giro con i suoi articoli. Longfellow ora è sulla bocca di tutti, e tutti ridono di lui. La ricchezza improvvisa non solo non gli ha migliorato la vita, ma rischia addirittura di rovinargliela per sempre. Il pubblico di allora probabilmente non avrebbe tollerato una fine tragica, e dunque Capra pensa bene di trovare un classico e doveroso “happy end”. Ma l’inquietudine resta, e lo spettatore non può fare a meno di interrogarsi: che cos’è che porta davvero la felicità alla nostra esistenza?
https://www.treccani.it/enciclopedia/frank-capra_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
https://maremosso.lafeltrinelli.it/approfondimenti/frank-capra-125-anni-nascita
Un’estate d’amore, di Ingmar Bergman, Svezia 1951
Il maestro svedese Ingmar Bergman non è stato soltanto uno dei più grandi autori della storia del cinema: i suoi film sono costantemente dei veri e propri saggi filosofici, che si interrogano sul senso delle nostre esistenze. E il binomio felicità/infelicità è appunto uno di quelli che più lo hanno interessato, fin dagli inizi dell’attività cinematografica. Le donne e gli uomini dei suoi film sono sempre rosi da un profondo malessere, da un sentimento di inadeguatezza ma, insieme, dall’aspirazione a qualcosa di più, a una pienezza di vita sempre agognata e, quasi sempre sfuggente. È così anche per la giovane ballerina Marie, impegnatissima sul palcoscenico ma come “svuotata” nel suo intimo. Che cosa le manca per essere felice, o almeno soddisfatta di quello che sta facendo? Non riesce a scoprirlo, nonostante le continue domande che si pone, ma si accorge che un ricordo in particolare si fa largo nella sua mente. Il ricordo di una mitica estate, durante la quale ha vissuto un’intensissima storia d’amore con un ragazzo che è poi morto in un incidente. Ecco, in quei brevi giorni illuminati dalla luce del sole del Nord, sorta di miracolo della natura capace di vincere le nebbie e il gelo invernale, in quei pochi attimi di estasi la vita le è apparsa in tutta la sua possibile pienezza. Dunque la felicità esiste, è possibile provarla: ma è anche possibile trattenerla, farla nostra continua compagna di vita? Marie se lo chiede e ce lo chiede, guidata da un regista, Bergman, che ha trasformato il cinema da macchina di spettacolo in un potentissimo strumento di autocoscienza.
I dimenticati, di Preston Sturges, Usa 1941
A che felicità possono mai aspirare gli ultimi della Terra, i “dimenticati” del titolo del film? Persone ai margini, poveracci, senzatetto, “barboni” e detenuti, insomma quelli che in troppo consideriamo gli “scarti” della società, come non manca mai di ammonirci Papa Francesco. Forse l’unico modo per capirlo davvero è vivere come loro, “fare finta” di essere come loro. È quello che decide di fare John Sullivan, il protagonista del film. Lui è un uomo di grande successo, regista affermato di simpatiche commedie a Hollywood. Però è stanco della routine del suo lavoro, si è messo in testa di girare storie drammatiche e dunque vuole vedere di persona come vive chi è ai margini della società. Solo che il “gioco” si fa ben presto molto duro: scambiato davvero per un delinquente, finisce dietro le sbarre. Un incubo, dal quale sembra impossibile uscire. Ed è qui che Sullivan si rende conto di quanto sia impossibile la vita degli emarginati. Con un piccolo barlume di felicità, però: quando in carcere viene proiettato un breve film animato di Topolino, tutti ma proprio tutti sembrano dimenticare per un momento le loro sfortune, ridendo finalmente a crepapelle. Dunque “quel” cinema che lui voleva abbandonare, proprio “quelle” commedie che gli sembravano inutili e deprecabili possono offrire anche ai derelitti un momento di pausa dal dolore, un lenimento dell’anima. È forse stato questo il merito massimo del cinema in generale, e di Hollywood ai suoi tempi d’oro in particolare?
Ps: molti anni dopo, nel 2000, i fratelli Coen hanno reso omaggio a questo bellissimo film di Sturges nel loro Fratello dove sei?, interpretato da George Clooney e John Turturro. Anche qui, gli “ospiti” di un carcere molto duro godono di un fugace attimo di felicità collettiva assistendo alla proiezione di un film.
Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica, Italia 1951
Gli “ultimi della Terra” sono stati al centro dei capolavori del neorealismo. In particolare i film di De Sica, sceneggiati dal geniale Cesare Zavattini, hanno sempre saputo dare un tocco di commovente e a volte surreale poesia alla rappresentazione cruda del dolore e della miseria delle persone appena uscite dalla Seconda guerra mondiale. Prendiamo i “barboni” protagonisti di questa “fiaba metropolitana”. Vivono in una sorta di campo profughi alla periferia di Milano, sanno godere di cose minime come un raggio di sole che filtra tra il nebbione della periferia, si ingegnano per guadagnare due lire con tutti i mezzi e mezzucci possibili. Non vengono però idealizzati, non sono per forza “buoni”. Anzi, l’estrema povertà spinge alcuni di loro a comportamenti egoistici e gretti, che rischiano di mandare all’aria la pacifica convivenza. Però, però sotto sotto sono più vicini all’essenza della vita dei ricconi ipocriti che, in realtà, li vogliono scacciare perché sotto la baraccopoli si è scoperto il petrolio. E dunque, come potranno mai arrivare a gustare un briciolo di felicità questi diseredati apparentemente senza speranza? In un finale tra i più famosi della storia del cinema (ha ispirato anche Steven Spielberg per il suo E.T. l’extraterrestre) salgono in cielo dalla piazza del Duomo di Milano a bordo di scope…volanti! Verso un mondo dove davvero “buongiorno vuol dire veramente buongiorno!”. La vera felicità, ci suggerisce il disincantato Zavattini, con ogni probabilità può essere raggiunta solo lassù, oltre le nuvole che coprono la grande, corrotta città…
Ps: da notare il titolo di lavorazione: in un primo momento il film si doveva chiamare I poveri disturbano. Capito?
Il treno per il Darjeeling, di Wes Anderson, Usa 2007
E se per trovare la felicità bisognasse andare lontano lontano lontano?… In tanti, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno inseguito il sogno dell’Oriente: un’altra dimensione, una cultura radicalmente diversa, la speranza (l’illusione?) che fuggendo dall’Occidente fosse possibile trovare un modo di vivere rappacificato con la natura e con gli altri, capace appunto di donare la felicità. E allora via, seguendo un cammino che ha portato molti giovani tra le montagne dell’India e del Nepal, in monasteri remoti, in religiosa attesa di una rivelazione spirituale. Ed è quanto fanno anche i tre fratelli del film di Anderson, tutt’e tre piuttosto “scoppiatelli”, tutt’e tre reduci da disavventure esistenziali. Hanno perso il padre da poco, mentre la madre è da tempo ospite in un convento sull’Himalaya. Quel viaggio dunque non è soltanto un viaggio fisico, ma si prospetta come un cammino di ricerca. Troveranno la madre? E lei sarà felice di vederseli comparire davanti all’improvviso? Ma, soprattutto, la domanda fondamentale è: riusciranno a superare le incomprensioni tra di loro, e a ritrovare la voglia e la felicità di vivere? Ancora una volta l’Oriente può rivelarsi un toccasana, a patto però di “usarlo” per trovare il coraggio di guardarsi nel profondo dell’anima.
La ruota delle meraviglie, di Woody Allen, Usa 2017
Woody Allen, eccolo qui. Comico e filosofo, battuta fulminante e disincanto amaro sempre in agguato. Si ride molto nei suoi film, eppure non ci si dimentica mai che la vita può essere, insieme, meravigliosa e tragica. Insomma, il binomio felicità/infelicità non si scioglie mai nei film di Woody, e men che meno in questo caso. Già il titolo è insieme una cosa reale e una metafora: la ruota panoramica del parco di divertimenti di New York, che vediamo dall’inizio alla fine, ci fa subito venire in mente il carosello dell’esistenza, con i suoi alti e bassi, i suoi vorticosi slanci e le sue abissali cadute. Le donne e gli uomini si incontrano, si amano, si lasciano, si ritrovano, in un susseguirsi di avvenimenti che forse sono casuali, o forse sono dettati dal Destino. Ginny, Mickey, Carolina, Humpty aspirano tutti a una vita diversa, a qualcosa in più, eppure eccoli incollati in quel mondo chiuso di Coney Island, il gigantesco parco di divertimenti in cui gli abitanti di New York e i turisti cercano un attimo di spensieratezza. Ma la spensieratezza non basta ai personaggi di Allen: tutti, indistintamente, anelano alla felicità. E tutti, indistintamente, scoprono il lato tragico della vita. Resta la consolazione di una battuta che, quando è davvero buona, chiamiamo con ammirazione “felice”.
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