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Lettere sulla tolleranza

Dalla tolleranza all’espulsione: la parabola gesuita nel Celeste impero

I gesuiti arrivati in Cina a partire dalla fine del XVI secolo dovettero scontrarsi con forti ostacoli culturali fino al XVIII secolo, quando i sovrani cinesi decisero l’espulsione dei missionari dall’impero.

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La chiesa uscita dal Concilio di Trento appariva rinvigorita nelle proprie fondamenta. Il definitivo riconoscimento dell’autorità indiscussa del Papa, la rigida uniformità imposta alla liturgia, la promozione di nuove congregazioni religiose contribuirono a rafforzare la determinazione dei cattolici a rispondere alla sfida del mondo riformato, a recuperare il terreno perduto nel mondo cristiano e, nel contempo, a rilanciare la missione pastorale ai quattro angoli del pianeta. In tale clima, se il papa è il comandante in capo dell’esercito di fedeli, l’élite dei suoi combattenti è raccolta in nuovo ordine fondato dallo spagnolo Ignazio di Loyola e riconosciuto dal pontefice nel 1540: la Compagnia di Gesù.
L’obbedienza “forte” dei francescani alle direttive del papa diventa con i gesuiti assoluta, totale o, per usare le parole del fondatore dell’ordine, “cadaverica”, ossia priva di volontà propria e del tutto dipendente dalla volontà superiore. Nel rilancio della missione evangelica seguito al Consiglio di Trento, l’attività tradizionalmente svolta dagli ordini religiosi tra le masse popolari si estende con i gesuiti anche ai ceti privilegiati. Se lo sguardo dei francescani è infatti rivolto agli ultimi, quello dei gesuiti abbraccia anche ai primi; se i frati cappuccini prediligono svolgere la propria attività tra i poveri, i gesuiti prestano molta attenzione anche ai ricchi; se la missione dei chierici teatini si consuma fuori dai palazzi del potere, quella dei gesuiti si svolge in buona misura al loro interno, influenzando l’attività dei governanti europei e attirando la curiosità degli imperatori cinesi o dei feudatari giapponesi.

Di fronte a Confucio

Nell’immenso e raffinato Impero cinese l’attività svolta dalla Compagnia di Gesù a partire dalla fine del XVI secolo si trovò ad affrontare ostacoli assai seri, per non dire insormontabili, dovendo confrontarsi con una civiltà antichissima, giunta a uno straordinario livello di sviluppo e profondamente radicata tra la popolazione. Di fronte a tale evidenza, i missionari europei non poterono esimersi dal prestarvi omaggio, sforzandosi di mostrare la compatibilità tra il messaggio cristiano e i fondamenti confuciani della millenaria cultura cinese. Il tentativo ottenne risultati solo parziali e quando, in reazione alla crescente ingerenza dei cristiani nelle pratiche di culto tradizionali, all’inizio del XVIII secolo i sovrani cinesi decideranno l’espulsione dei missionari dal territorio dell’impero, la penetrazione culturale avviata dai gesuiti non si era spinta oltre lo strato superficiale del tessuto sociale, ottenendo la conversione di appena il 2% della popolazione.
Eppure l’avventura dei soldati di Cristo nel Celeste impero aveva avuto inizio sotto i migliori auspici. La loro presenza in Cina si era rafforzata sempre più durante la seconda metà del XVI secolo e, nel 1601, avevano ricevuto l’onore di essere ricevuti alla corte dell’imperatore Wanli, il sovrano più longevo della dinastia Ming. A rappresentare la Compagnia fu in quell’occasione il maceratese Matteo Ricci che, dopo avere passato vent’anni immerso nello studio della cultura cinese, si era immedesimato a tal punto nei costumi di quel popolo da dismettere gli abiti occidentali per indossare le tuniche nere dalle ampie maniche, in uso presso i letterati confuciani. Apprezzato per la sua cultura e la perfetta padronanza della lingua, il gesuita italiano aveva attirato la curiosità dell’imperatore non per mezzo del messaggio religioso di cui si faceva portatore, ma grazie agli orologi recati in dono, simbolo dei traguardi raggiunti dall’occidente nel campo della scienza e della tecnica. Dopo Ricci, la corte degli imperatori Ming e poi Qing si popolerà di altre importanti figure di gesuiti, che trasmetteranno al ceto dei mandarini e dei dignitari imperiali le nuove scoperte effettuate dall’Europa in discipline quali l’astronomia, la matematica e le scienze naturali. Sarà un gesuita tedesco, Adam Schall, ad assumere verso la metà del XVII sec la prestigiosa carica di Presidente del Tribunale dei matematici dell’impero.
L’”editto di tolleranza” emanato nel 1692 dall’imperatore Kangxi in favore dell’attività missionaria dei cristiani non fece che ufficializzare una presenza ormai ben radicata: nel 1700 a Pechino e nella sterminata provincia dell’impero erano attivi 120 sacerdoti; oltre la metà dei quali gesuiti, in prevalenza francesi.

I lumi dell’Oriente 

Le lettere, i resoconti e le descrizioni che quei missionari inviarono in Europa parlavano con entusiasmo del felice connubio tra una struttura di potere arcaica nel suo assolutismo e la straordinaria efficienza dell’amministrazione, la raffinatezza della cultura, la produttività di un sistema economico capace di alimentare la ricchezza dell’impero e sostenere una crescita demografica costante. Il tutto nel quadro di un armonico ordinamento gerarchico della società, ispirato ai principi della filosofia confuciana. Quegli scritti esercitarono una grande influenza sulla cultura europea, alimentando l’interesse per l’estremo oriente e i suoi prodotti (le chinoiseries), che si diffuse nel continente a cavallo tra la prima e la seconda metà del XVII secolo, e catturando il pensiero dei filosofi illuministi – francesi in particolare – che nella Cina imperiale raccontata dai padri gesuiti videro la realizzazione di quel “dispotismo illuminato”, al quale in Europa erano affidate le speranze di una riforma del sistema assolutista al lume della ragione.
Gli sforzi compiuti dai missionari gesuiti per entrare in sintonia con il contesto politico sociale e culturale cinese attirarono non di rado critiche e sospetti di altri ordini presenti nel Celeste impero (francescani e domenicani in particolare), che nelle informative inviate a Roma rimproveravano alla Compagnia di Gesù l’eccessiva accondiscendenza verso i rituali e le pratiche tradizionali diffuse tra la popolazione cinese. In particolare veniva fatto notare come questa duttilità si spingesse fino a sostenere la compatibilità tra la conversione al cristianesimo e la conservazione del culto degli antenati, pietra angolare del pensiero confuciano, che i gesuiti consideravano con ragione un’usanza sociale e non una pratica religiosa.

I riti negati

La presa di posizione defiitiva della Santa sede su quella che sarà ricordata come “la controversia sui riti cinesi” giunse nel 1715 attraverso la bolla Ex illa die, emanata dal pontefice Clemente XI, attraverso la quale il pontefice imponeva alle poche migliaia di cinesi convertiti al cristianensimo il divieto di celebrare i riti in onore degli antenati.
Di fronte alla presa di posizione del pontefice, l’imperatore Kangxi rispose duramente: «Che cosa direbbe il papa, se l'imperatore cinese si permettesse di giudicare e di riformare le cerimonie vaticane?». Nel 1717, furono così proibiti la predicazione e il proselitismo cristiano nell’Impero cinese. A tale misura fece seguito, nel 1724, l'espulsione di tutti i missionari cattolici dalla Cina, salvo un piccolo gruppo attivo presso la corte imperiale. Venivano così cancellati con un colpo di spugna gli sforzi compiuti da Matteo Ricci e da tutti i “soldati di Cristo” che nell’arco di quasi due secoli si erano impegnati a costruire un ponte tra oriente e occidente, allo scopo di favorire l’incontro tra culture differenti.
I gesuiti torneranno in Cina nel 1842 sulla punta delle baionette inglesi quando, al termine della prima Guerra dell’oppio, il trattato di Nanchino pose fine alla politica isolazionista del governo cinese e spezzò le resistenze opposte dal Celeste impero alla penetrazione europea. A quel tempo l’ammirazione e il rispetto che fino al secolo precedente avevano caratterizzato la condotta di diplomatici e missionari occidentali presso la corte imperiale erano solo un ricordo e la Cina si apprestava a diventare oggetto di contesa tra le potenze coloniali.


Crediti immagine: Matteo Ricci, 1610 (Wikimedia Commons)

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