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Lettere sulla tolleranza

La pax deorum. Alle radici della tolleranza e dell’intolleranza romana

Michela Mariotti approfondisce il concetto di tolleranza religiosa nel mondo romano: dalla necessità di non inimicarsi nessuna divinità che ha portato all’inclusione religiosa alle persecuzioni dei cristiani.

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Una precisazione terminologica

Si può parlare di tolleranza nel mondo romano? Certo, il termine “tolleranza”, che indica l’«atteggiamento teorico e pratico di chi», soprattutto in fatto di religione, «rispetta le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle cui egli aderisce, e non ne impedisce la pratica estrinsecazione» (Treccani, Vocabolario online), deriva dal latino tolerantia, ma questa discendenza diretta nasconde un insidioso slittamento semantico. In latino tolerantia, dal verbo tolero, «sopportare» un peso (fisico o astratto come fatiche, dolori, colpi della sorte), significa appunto «capacità di sopportazione», qualcosa di simile alla stoica patientia. L’idea dell’accoglienza di ciò che si riconosce come diverso, ma degno di pari rispetto, è estranea al termine latino, e anzi, la sovrapposizione della tolerantia latina alla moderna ‘tolleranza’, che nasce in Europa con le Guerre di religione (XVI secolo), insinua l’idea che il diverso sia anche una minaccia, qualcosa di molesto da sopportare. Al contrario, nella moderna ‘tolleranza’ l’idea dell’accoglienza priva di pregiudizi prevale sullo sforzo volitivo dell’accettazione. Pertanto alcuni storici preferiscono, per il mondo antico, parlare di ‘inclusione’ ed ‘esclusione’ (in inglese inclusivity ed exclusivity) ed evitare l’uso di categorie moderne che rischiano di appiattire le differenze storiche.

L’opposizione tra politeismo inclusivo e monoteismo esclusivo

Riformuliamo allora la domanda: in fatto di religione, il mondo romano era inclusivo? L’idea diffusa è che il politeismo sia inclusivo per natura: in contrasto con il monoteismo, che esclude l’esistenza di altri dèi al di fuori dell’unico vero Dio, la pluralità di dèi è potenzialmente illimitata e quindi aperta a nuove acquisizioni. In effetti, la coesistenza a Roma di culti patrii e peregrini, originari di Roma e provenienti dall’estero, è attestata fin dalle fasi più antiche della storia di Roma: secondo Livio (1,20,5-6) si tratta di un dato originario, già acquisito al tempo della riforma religiosa di Numa Pompilio. La diffusione di culti esotici e misterici come quello di Cibele, la Magna mater di origine frigia, che ebbe un tempio sul Palatino, dell’egizia Iside venerata dalle matrone, o del dio solare Mitra di origine persiana, che conobbe una grande fortuna tra i soldati degli eserciti imperiali, sembrano confermare questa tendenza.

Fattori di inclusività: interpretatio Romana ed evocatio

Alcuni elementi caratteristici della religione tradizionale si rivelano potenti fattori di integrazione, a partire dall’interpretatio Romana, il processo di assimilazione delle maggiori divinità straniere, identificate con quelle originarie di Roma e da esse rinominate: così il pantheon greco può coincidere con quello romano (Crono-Saturno, Zeus-Giove, Era-Giunone…) senza che siano cancellate le differenze locali del mito e del culto, ma formalizzando un’attitudine a riconoscere e valorizzare ciò che è simile nell’alterità.
Dalle fonti storiche conosciamo poi l’antico rituale dell’evocatio: prima di muovere all’assalto di una città i Romani avevano l’abitudine di invocare gli dèi del nemico pregandoli di “trasferirsi” a Roma, dove avrebbero ricevuto i dovuti onori. Livio, per esempio, conserva la formula dell’evocatio pronunciata dal dictator Camillo prima della conquista di Veio (396 a.C.): «Ti prego, Giunone regina, che ora abiti Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città, che presto diventerà la tua, dove ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza» (Liv.5,21,3). Una manifestazione di timore e rispetto per gli dèi dei vinti.

Registri delle nuove divinità e formule liturgiche

Anche il continuo aggiornamento della lista dei nomina deorum redatta dal collegio dei pontefici e l’uso di formule onnicomprensive con cui si concludeva la preghiera invocando la generalità degli dèi e delle dee per rimediare a inevitabili omissioni o dimenticanze (il commentatore Servio spiega l’invocazione dique deaeque omnes di Virgilio, Georg.1,21 ricordando che secondo la consuetudine dei pontefici ogni rito sacro rivolto a una particolare divinità si doveva concludere invocando generaliter tutte le altre divinità, perché nessuna si sentisse trascurata) testimoniano un atteggiamento di apertura e inclusività.

Una religio che tende all’inclusione: perché?

Si potrebbe collegare questa tendenza alla narrazione delle origini di Roma, un melting pot che unisce in un’unica civitas popoli etnicamente diversi (troiani, latini, etruschi) e che favorirebbe naturalmente un orientamento religioso, e culturale in genere, aperto e inclusivo. Esiste però una ragione più cogente, che risiede nell’intima connessione tra religione e politica nella struttura stessa dello Stato romano: la storia di Roma in tutte le sue fasi è posta in collegamento diretto con il culto divino. Dalla fondazione della città, avvenuta per volontà superna, alla sua crescita prodigiosa, fino alla realizzazione di un impero mondiale, la fortuna di Roma dipende dal favore degli dèi; un legame privilegiato che i Romani hanno ottenuto non per grazia ricevuta, ma con la rigorosa osservanza della religio. Mentre gli insuccessi in guerra si spiegano con il mancato rispetto del culto divino da parte di generali irresponsabili, la prosperità della res publica, l’estensione e il consolidamento del suo dominio dipendono dalla scrupolosa osservanza della religio, come argomenta Cicerone aggiungendo: «se vogliamo confrontare la nostra storia con quella dei popoli stranieri, dovremo riconoscerci pari o inferiori in tutte le altre cose, ma nella religio, cioè nel cultus deorum, di gran lunga superiori» (De natura deorum 2,8). Per i Romani mantenere questo primato nel culto religioso significa conservare anche la supremazia politica.

Politica e religione: la pax deorum per la salvezza dello Stato

A Roma la religio ha una funzione politica e serve a ottenere e mantenere il favore degli dèi attraverso un patto di alleanza. Il rapporto con la divinità non appartiene all’intimo della coscienza individuale, ma alla sfera pubblica del diritto, e si configura come ricerca collettiva della pax deorum. All’origine dell’apertura verso le divinità dei popoli vinti e stranieri, c’è la necessità di non inimicarsi nessun numen che possa incrinare il patto di alleanza tra il popolo romano e il potere divino. La tendenza all’inclusione religiosa, quindi, ha ragioni politiche ed è finalizzata alla conservazione della pax deorum, da cui dipende la salvezza e la prosperità di Roma. L’inclusione è uno strumento politico, più che il frutto di un’accettazione disinteressata e priva di pregiudizio del diverso come vorrebbe la moderna categoria di “tolleranza”. 
Accade così che la pax deorum, fondamento ideologico della tendenza all’apertura, finisce per giustificare anche forme di intolleranza. Ma occorre distinguere.

La repressione dei Baccanali e il richiamo alla tradizione

Nel 186 a.C. fu celebrato il più famoso processo religioso prima delle persecuzioni cristiane, la quaestio de Bacchanalibus, che si concluse con una durissima repressione dei culti bacchici su tutto il territorio della penisola. Per giustificare la necessità della linea dura, uno dei consoli, come leggiamo nel resoconto di Livio, richiama i concittadini ai culti patrii, agli dèi che i maiores hanno insegnato a colere, venerari precarique, in opposizione a quelli che «spingono ad ogni delitto e libidine le menti rese folli da culti perversi e stranieri (pravis et externis religionibus captas mentes)» (Liv.39,15,2). Ecco affacciarsi qui un criterio di ortodossia, rappresentato dalla tradizione nazionale e avita, che spinge ad escludere il culto straniero. Il console si richiama espressamente all’esempio degli antenati che nella Roma arcaica non esitavano a vietare i culti stranieri che fossero giudicati in contrasto con la tradizione cultuale romana.

La pax deorum prevale sul mos maiorum

Eppure non è sulla base di questo criterio che si decide la repressione dei baccanali, ma in ragione della loro pericolosità sociale: i riti bacchici hanno luogo di notte, in luoghi privati e con il concorso di un gran numero di persone; un contesto questo, in cui secondo le testimonianze raccolte si consumano stupra e flagitia, e forse si preparano anche congiure contro lo Stato. La decisione del senato, di cui conserviamo anche testimonianza epigrafica (il senatus consultum de Bacchanalibus), colpisce le modalità di svolgimento dei riti, che potranno essere celebrati solo di giorno, con un numero di partecipanti ridotto e con l’autorizzazione del pretore, ma non proibisce affatto il culto di Bacco in sé. Secondo il console, esiste infatti un diritto inviolabile della divinità a ricevere il culto dovuto, anche quando il suo numen venga usato per coprire atti criminosi: resta appunto «il timore che nel punire gli inganni umani non violiamo in qualche misura il diritto divino che vi è frammisto (divini iuris aliquid immixtum)» (Liv.39,16,7). Anche nella repressione, il timore di compromettere la pax deorum prevale sul criterio di fedeltà alla tradizione nazionale e salva il culto di Bacco se non i suoi più spregiudicati esecutori.

I cristiani: dalle persecuzioni alla libertà di culto, sempre in nome della pax deorum

Al contrario, nel II e III secolo d.C., la difesa della pax deorum viene impugnata contro i cristiani per discriminarli e perseguitarli. In tempi di crisi i cristiani sono ritenuti responsabili di catastrofi naturali e militari perché non sacrificano agli dèi tradizionali di Roma, incrinando così il patto di alleanza che il popolo romano ha sancito con gli dèi. I primi autori apologeti del cristianesimo, come Tertulliano e Cipriano, sono impegnati nella confutazione di questa accusa.
Dopo le persecuzioni di Decio, Valeriano e Diocleziano, i cristiani ottengono la libertà di culto con  l’editto di Serdica, emesso da Galerio nel 311 d.C. Nella scelta di correggere la politica persecutoria di Diocleziano pesarono probabilmente ragioni di opportunità politica (la ripresa delle ostilità sul fronte persiano, il problema della successione…), ma nell’atto formale Galerio ammette il fallimento della repressione: gli dèi tradizionali di Roma hanno continuato ad essere trascurati e nemmeno il Dio dei Cristiani ha ricevuto il suo culto a causa delle persecuzioni. Pertanto Galerio chiede ai cristiani di pregare il loro Dio per la salvezza dello Stato e dell’imperatore affinché Roma ottenga la pace del loro Dio.

Per approfondire il tema nell’età di Costantino puoi seguire le lezioni dello storico Andrea Giardina cliccando qui https://allaenne.sns.it/video/inclusione-ed-esclusione-nel-mondo-romano/

Crediti immagine: Una Dirce cristiana nel circo di Nerone, Henryk Siemiradzki, 1897 (Wikimedia Commons)

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