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Libertà va cercando

Libertà, parresìa e cura: l’esempio di Socrate

Grazie all’analisi dei testi di Platone che parlano di Socrate, perfetto filosofo “parresiastico”, Roberta Ioli ci accompagna alla scoperta del concetto di libertà nel mondo antico. Il greco antico per esempio, aveva due parole distinte per indicare il concetto di libertà: Eleutheria, libertà nell’accezione politica, e Parresìa, libertà di parola.

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«Non c’è mortale che sia libero»: così Ecuba riflette amaramente, nell’omonima tragedia di Euripide, sul destino che accomuna tutti (Ecuba, v. 864). Per la sventurata regina la libertà è un bene prezioso e fragile, sempre ricercato ma irraggiungibile, poiché siamo schiavi del denaro, della sorte o di leggi ingiuste. In realtà, il mondo antico è particolarmente sensibile al valore della libertà e alle sue molteplici sfumature. Il greco si serve, principalmente, di due parole distinte per indicare questa condizione. Eleutheria (ἐλευθερία) è la libertà nella sua accezione politica: libero è colui che nasce da genitori non schiavi, né è soggetto al potere di un tiranno o di uno straniero. Esiste poi la parresìa (παρρησία), cioè la libertà di parola, esercitata sia in ambito retorico-giudiziario, sia nella pratica del dialogo condotto con franchezza e senza timore del giudizio altrui.

Anche la libertas latina allude alla condizione dell’uomo che nasce libero, cioè non servus: liber è chi gode dei diritti civili e politici, eppure nella radice etimologica del termine vi è soprattutto una forte implicazione relazionale: libertas non coincide infatti con licentia, cioè con l’affermazione incondizionata della propria volontà, ma evocando la condizione particolare in cui si trovano i liberi, cioè i figli, include sempre un rapporto con gli altri. Liberi non significa semplicemente non essere schiavi, ma condividere la condizione di figli, cioè di coloro che si definiscono attraverso la relazione con gli altri membri della famiglia. Libertà, pertanto, non è perseguire ciecamente ed egoisticamente i propri obiettivi, ma “prendersi cura della relazione”. In questo senso sono illuminanti le riflessioni di Michel Foucault sulla parresìa, raccolte in Discorso e verità sulla Grecia antica: la libertà di parola, nel suo legame con la verità, presuppone sempre un vincolo di responsabilità nei confronti dell’uditorio. Non esiste libertà di parola se non all’interno di un contesto di cura, che è cura di sé e dell’altro nella ricerca incessante della verità.

Confrontandosi con il sofista Callicle, nel Gorgia platonico (487a-b), Socrate riconosce che il dialogo può essere un’occasione di cambiamento salvifico solo quando ci induca a mettere radicalmente alla prova la nostra anima per saggiarne la rettitudine. Questo tipo di dialogo comporta la presenza di tre elementi irrinunciabili: la conoscenza (episteme), la benevolenza (eunoia) verso il proprio interlocutore e la franchezza o libertà di parola (parresìa). Il dialogo vero, che ci permette di conoscere meglio noi stessi e l’altro, ha dunque bisogno non solo di un sapere in parte già acquisito intorno a ciò che è oggetto di discussione, ma anche e soprattutto di una predisposizione alla cura e alla responsabilità, come indicano la franchezza e la benevolenza radicate nella ricerca condivisa.
 

La parresia è una pratica di libertà che presuppone profonde qualità morali e sociali. Che sia svincolata dalla dimensione politica risulta evidente, per esempio, nelle Baccanti di Euripide, là dove è il Nunzio, servo del re Penteo, a ricorrere alla parresìa per raccontare al sovrano ciò che sa e ha visto a proposito delle donne possedute dal dio Dioniso (Bacc., v. 668): Penteo lo autorizza a parlare con libertà, a esprimere la verità anche più tremenda senza timore di rimproveri, perché non va mai censurato il discorso di un uomo giusto e onesto (dikaios, v. 673). Inoltre, come ci ricorda la Fedra di Euripide, la parresìa è la condizione di felice libertà garantita dalla buona reputazione, cioè dalla consapevolezza della propria innocenza e dall’assenza di colpe familiari che graverebbero sui discendenti vincolandoli a un destino di dolore e vergogna (Ippol., vv. 420-425).
 

Nonostante il valore attribuito alla libertà interiore e, soprattutto, nonostante Socrate sia il modello perfetto del filosofo parresiastico, nei dialoghi platonici egli viene associato alla condizione di parresìa in un unico caso. Lachete, nell’omonimo dialogo, riconosce in Socrate il vero maestro capace di vagliare l’animo dell’interlocutore: in lui regna infatti una compiuta armonia tra parola e azione, tra logos e bios, requisito fondamentale per chi intraprenda con amore la ricerca del vero (Lach. 188c-189a). Come nel Gorgia, anche nel Lachete la parresìa è una pratica fondamentale del basanizein, cioè del “mettere alla prova” l’anima. Il Socrate parresiasta si aspetta dall’interlocutore, prima di tutto, una prossimità, chiede cioè di stabilire un rapporto personale in cui cadano maschere, difese e finzioni. In secondo luogo, l’interlocutore di Socrate deve affidarsi al gioco parresiastico non con un atteggiamento di passività, ma disponibile a render conto di sé e del modo in cui ha finora condotto la propria vita. Il dialogo non è un’oziosa perdita di tempo, né uno strumento finalizzato alla persuasione, ma una messa alla prova radicale della propria esistenza. E, se intesa come libertà di parola che implica prima di tutto libertà dell’anima, la parresìa guida gli interlocutori verso la relazione responsabile.
 

Nell’Apologia di Socrate, testamento spirituale che Platone fa pronunciare al maestro poco prima della sua condanna a morte, Socrate rivela ai cittadini la via verso la saggezza e la virtù: «Infatti io me ne vado in giro facendo nient’altro che cercare di persuadere voi, giovani e vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell'anima, in modo che diventi il più possibile virtuosa, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, in privato e in pubblico» (Apol. 30b). Libertà e virtù vengono così associate all’esperienza della cura. Socrate che cammina a piedi scalzi lungo le vie di Atene assomiglia a un satiro danzante che rivela ai suoi interlocutori il cammino verso la verità: in un radicale rovesciamento di prospettiva, il vero bene è prendersi cura non delle ricchezze e della fortuna, ma di quel tesoro dell’anima che è la saggezza.

La morte di Socrate

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