Nonostanti i ripetuti tentativi di riabilitazione della storiografia moderna, la figura di Tiberio resta indissolubilmente legata al ritratto a tinte fosche che Tacito ci consegna nei primi sei libri degli Annales. La narrazione dei ventitre lunghi anni di governo del primo successore di Augusto, rimasto al potere dal 14 al 37 d.C., trova compimento nel giudizio complessivo che sigla il resoconto della sua morte:
«…chiuso e ipocrita nel simulare virtù, finché vissero Germanico e Druso; la sua vita fu una mescolanza di bene e di male quando era ancora viva sua madre; fu odioso per la sua ferocia ma segreto negli eccessi delle passioni, finché predilesse Seiano e lo temette: alla fine proruppe nei delitti e nelle ignominie allorquando, rimossa ogni vergogna e ogni paura, si abbandonò soltanto ai suoi liberi istinti» (Ann. 6,51,3; trad. B. Ceva).
Tacito riconosce nella condotta dell’imperatore una progressione negativa, scandita da una serie di eventi cruciali: la morte del figlio Druso nel 23, preceduta nel 19 d.C. da quella di Germanico, il nipote (figlio del defunto fratello di Tiberio, Druso) che Augusto gli fece adottare; la morte della madre Livia nel 29; infine l’uccisione di Seiano, il potente prefetto del pretorio, prima favorito e poi caduto in disgrazia e consegnato al giudizio del Senato con l’accusa di alto tradimento nel 31. La valutazione negativa abbraccia l’intero periodo del governo di Tiberio, non solo gli anni bui del ritiro a Capri (dal 26 fino alla morte), quando l’allontanamento volontario dell’imperatore da Roma accrebbe risentimenti, sospetti, calunnie.
Perché Tacito è un giudice così severo con Tiberio?
Tacito ha vissuto gli anni violenti della tirannide di Domiziano e ha salutato pieno di speranza il principato di Traiano (al potere dal 98 al 117, dopo la breve parentesi di Nerva, l’anziano senatore moderato): rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet, «epoca di rara felicità, in cui è lecito pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa» (Hist. 1,1,6), ma poi, forse sotto il regno dello stesso Traiano, ha constatato l’impossibilità di conciliare principato e libertas. Nella sua ultima opera storica, gli Annales, decide di narrare le vicende della dinastia giulio-claudia Ab excessu divi Augusti (così recita il sottotitolo dell’opera), a partire dalla morte del fondatore del principato: ciò che interessa allo storico non è la formazione dell’istituzione imperiale, che egli accetta come una necessità ineluttabile, ma la sua trasformazione in regime assoluto.
Tacito intende risalire alle origini del dispotismo, che individua nell’involuzione tirannica del regno di Tiberio. Certo, già il principato di Augusto presentava caratteri di tirannia: la continuità formale con le istituzioni repubblicane era mera propaganda. Ma è con Tiberio che il principato diventa sistema: cade il carattere di “provvisorietà” del regime augusteo, unico rimedio per porre fine alle guerre civili e restituire a Roma la pace, e la soluzione contingente si rivela definitiva, una strada senza ritorno.
Una narrazione priva di falsificazioni storiche, ma non obiettiva
Si potrebbe pensare (qualcuno lo ha fatto) che per ottenere il suo scopo Tacito falsifichi i fatti della Storia. Non è così. Tacito esamina con scrupolo le fonti a sua disposizione, comprendenti Acta Senatus (verbali del Senato), Acta diurna populi Romani (i resoconti ufficiali dei principali accadimenti di interesse pubblico), raccolte di lettere e discorsi, e riferisce la verità appurata attraverso un’indagine rigorosa, come confermano, dove possibile, i riscontri con dati epigrafici e materiali. Non dice falsità, ma ordina i fatti secondo un preciso disegno, funzionale alla tesi che intende dimostrare; dissemina il racconto di insinuazioni, riferendo i rumores, dicerie e voci di corridoio, che anche quando sono dichiaratamente prive di fondamento concorrono a orientare il giudizio del lettore; lascia la parola a Tiberio ponendolo in contraddizione con quanto lo storico ha affermato nelle sezioni narrative; usa sapientemente lessico e sintassi per connotare fin nella forma dell’espressione l’ambiguità che caratterizza l’operare del successore di Augusto.
L’assassinio di Agrippa, primum facinus novi principatus
La narrazione di Tacito getta una luce sinistra sulla figura dell’imperatore fin dai primi atti del suo governo, inaugurato dall’assassinio di Agrippa Postumo, nipote di Augusto, ultimo sopravvissuto dei figli di Giulia e Agrippa, all’epoca esiliato a Pianosa perché coinvolto in una congiura di palazzo. In realtà, nulla di certo sappiamo sulle responsabilità di questo omicidio: fu Augusto a dare ordine di eliminare Agrippa dopo la sua morte? E ne parlò con Tiberio prima di morire (cfr. Ann. 1,5,3)? Oppure fu Livia a togliere di mezzo l’ultimo rampollo della discendenza di Augusto per spianare l’ascesa al potere del figlio? E questi era suo complice? O ancora Agrippa fu ucciso dalle guardie mentre tentava di lasciare l’isola alla notizia della morte del nonno?
Tacito descrive il comportamento di Tiberio secondo la categoria dell’ipocrisia e della dissimulazione: nulla riferì in senato sull’assassinio di Agrippa e finse che fosse avvenuto per ordine di Augusto (patris iussa simulabat, Ann. 1,6,1). Quando il centurione gli annunciò, secondo l’uso militare, di avere eseguito gli ordini, Tiberio rispose di non avere dato lui quegli ordini e che della questione si doveva rendere conto al Senato. Alla fine però la madre e chi era a parte del complotto lo convinsero a non procedere oltre (1,6,3). All’interno del racconto che stigmatizza l’ambiguità del nuovo principe, Tacito inserisce le proprie valutazioni personali: Augusto, che pure aveva fatto esiliare il nipote, non incrudelì mai al punto da far uccidere uno dei suoi, né era credibile «che si fosse data la morte al nipote per la sicurezza del figliastro». Propius vero, «Più vicino alla verità era il fatto che Tiberio e Livia, l’uno per paura, l’altra per odio di matrigna, avessero affrettato l’assassinio del giovane sospetto e odioso» (1,6,2; trad. B. Ceva).
A questo punto anche l’uso di una vox media come facinus (nome deverbativo da facio, «azione, atto») nell’esordio del capitolo (e del governo di Tiberio), Primum facinus novi principatus fuit Postumi Agrippae caedes, «Il primo atto del nuovo principato fu l’assassinio di Agrippa Postumo» (Ann. 1,6,1), assume il pieno valore negativo di «atto scellerato» essendo il facinus un delitto di cui Tiberio, complice di Livia, si è rivelato il (più probabile) mandante.
Gli intrighi di Livia
Del resto nel capitolo precedente l’ipotesi di un ruolo di Livia nella morte di Augusto (et quidam scelus uxoris suspectabant, 1,5,1), è direttamente collegata proprio alla notizia (quippe rumor incesserat, «poiché si era diffusa la voce») di una possibile riabilitazione di Agrippa da parte di Augusto. E sugli intrighi di Livia per favorire l’ascesa di Tiberio, Tacito ha già moltiplicato le insinuazioni: Livia «aveva soggiogato a tal punto il vecchio Augusto da fargli relegare nell’isola di Pianosa l’unico nipote» (1,3,4); su Livia il sospetto della morte prematura dei fratelli maggiori di Agrippa Postumo, Lucio e Gaio Cesare (morti rispettivamente nel 2 e nel 4 d.C; su di loro si era orientato il favore del princeps per la successione dopo la prematura scomparsa di Marcello, figlio di sua sorella Ottavia): L. Caesarem… Gaium… mors fato propera vel novercae Liviae dolus abstulit, «una morte prematura per fato o l’inganno della matrigna Livia eliminò Lucio…, Gaio» (1,3,3). Ecco, in questo passo, un esempio di uno strumento sintattico prediletto da Tacito per introdurre le sue insinuazioni, la coordinazione disgiuntiva: l’elemento negativo (qui novercae Liviae dolus) occupa sempre il secondo membro, ed è quello che riceve maggiore rilievo espressivo (ottenuto qui con il concorso di chiasmo e variatio).
Sospetti su Tiberio per la morte di Germanico
Allo stesso modo Tacito suggerisce al lettore la responsabilità di Tiberio nella morte di Germanico, suo nipote e figlio adottivo, legato per nascita alla gens Iulia (la madre, Antonia, era figlia di Ottavia sorella di Augusto), giovane generale amato dalle sue legioni e prediletto dal popolo (e quindi temibile competitore del princeps). Si è notato (cfr. A. Carpentieri, in «Sileno» 32, 2006), per esempio, che l’atteggiamento di Tiberio, che non si oppone al diffondersi di false notizie sulla presunta guarigione di Germanico (Ann. 2,82, 5), richiama il comportamento di Livia che alla morte di Augusto aveva fatto diffondere buone notizie per avere il tempo di provvedere a quanto le circostanze richiedevano (Ann. 1,5,4). Un parallelo che permette al lettore di proiettare sul ruolo di Tiberio nell’affaire Germanico le medesime responsabilità di Livia nella morte di Augusto. Ma in particolare, Tacito pone Tiberio in contraddizione con azioni e condotte descritte nella sezione narrativa quando gli cede la parola di fronte al Senato (Ann. 3,12,1 ss.) durante il processo contro Gneo Pisone, il legato di Siria che fu accusato della morte di Germanico, da Tiberio inviato in Oriente. Una rete di contraddizioni che rivela al lettore l’ipocrisia di Tiberio e alimenta il sospetto sulle sue responsabilità.
Tutte le prove dell’ipocrisia dell’imperatore
Parlando al Senato, Tiberio definisce un atto di riguardo verso Germanico la scelta di avere istruito il processo davanti al Senato (3,12,7) mentre poco prima (3,10,3) il lettore ha appreso che deferire il giudizio al Senato è stata una mossa di opportunismo politico.
Tiberio scarica sul Senato la decisione di avere inviato Pisone in Oriente (3,12,1) mentre in 2,43,2 Tacito dichiara che fu iniziativa di Tiberio sostituire il legato di Siria, «legato da parentela a Germanico», con l’anziano senatore Pisone, «uomo di indole violenta e incapace di obbedienza», probabilmente con l’incarico di sorvegliare l’operato di Germanico (così, almeno, aveva capito Pisone, 2,43,4).
Tiberio ha parole di dolore per la morte del figlio: defleo equidem filium meum semperque deflebo (3,12,5, incorniciate nell’enfasi del poliptoto defleo… deflebo), ma poco prima Tacito ha ammesso che tutti sapevano «che Tiberio a stento dissimulava la sua gioia per la morte di Germanico (3,2,3, ma sull’ipocrisia del lutto di Tiberio e Livia cfr. 3,3,1-3 e sui reali sentimenti di Tiberio verso i figli 2,43,5). Ancora più eclatante però il fatto che Tiberio si scagli contro coloro che mettono in campo l’accusa di veneficio (3,12,4), mentre era stato proprio Germanico ad accreditare ampiamente questa tesi nelle ultime parole rivolte agli amici (2,71,1-5).
Dunque Tacito costruisce il discorso diretto di Tiberio in modo che il lettore possa saggiarne tutta l’ipocrisia e la crudele falsità. E getta così ombre pesanti sulla responsabilità dell’imperatore nell’assassinio del figlio adottivo, pur senza esprimere nessuna condanna diretta.
Le parole di Tiberio, suspensa semper et obscura
«Tiberio anche quando non voleva nascondere il suo pensiero, sia per natura, sia per abitudine, usava sempre parole ambigue ed oscure (suspensa semper et obscura verba); quando poi si sforzava particolarmente di occultare i suoi sentimenti, le sue parole erano quanto mai avviluppate nelle incertezze e nelle ambiguità (in incertum et ambiguum magis implicabantur)». Questo è il giudizio che in Ann. 1,11,2 Tacito riserva alle qualità oratorie del principe quando di fronte al Senato tergiversa e fa mostra di non volere accettare l’onere dell’Impero. Ipocrisia e ambiguità, che si rivelano pienamente confermate nel discorso per il processo di Pisone, come negli altri discorsi diretti e indiretti attribuiti all’imperatore.
L’ipocrisia di Tiberio nel caso di Libone Druso
Nel segno dell’ipocrisia e della crudeltà si pone il comportamento del principe anche nella questione dei procedimenti per il crimine di lesa maestà. Esemplare in tal senso è già il caso di Libone Druso, accusato nel 16 a.C. di aver meditato di uccidere Tiberio e i suoi figli Druso e Germanico con occulti malefici (Ann. 2,27,1-32,2). Mentre venivano raccolte le prove per inchiodare il giovane, appartenente alla famiglia Scribonia (e quindi imparentato con Scribonia, prima moglie di Augusto), Tiberio gli attribuì cariche pubbliche e lo trattò con familiarità. Ma quando Libone si presentò in Senato il giorno del processo, visibilmente affranto e sofferente, dopo avere invano cercato qualcuno tra i parenti disposto a difenderlo («tutti, mossi dalla stessa paura, si ritraevano», 1,29,1), e tese le mani verso Tiberio in atto di supplica, egli lo accolse immoto vultu, con sguardo impassibile, e lesse personalmente l’atto di accusa «con un tono di voce misurato, per non dare l’impressione di voler attenuare o inasprire i capi d’imputazione» (2,29,2). Libone si suicidò e Tiberio di fronte al Senato «giurò che avrebbe chiesto che fosse risparmiata la vita a Libone, seppure colpevole, se non avesse affrettato la morte col suicidio» (2,31,3). Indulgenza post mortem a costo zero.
Il crimen maiestatis e la libertà di parola
In 1,72,2 la scelta di mantenere in vigore la relativa legge introdotta da Augusto è considerata prova evidente della malafede di Tiberio nel far mostra di rispettare il Senato e i relitti delle istituzioni repubblicane. Era stato Augusto ad estendere alle imputazioni di diffamazione e vilipendio la legge relativa al crimen maiestatis «che pur con lo stesso nome era dagli antichi applicata per ben altre colpe», quelle di alto tradimento nei confronti della res publica: facta arguebantur, dicta impune erant, «allora si prendevano provvedimenti contro i fatti, mentre contro le parole non vi era pena», osserva amaramente Tacito che ha vissuto il clima intimidatorio e violento del regime di Domiziano. Tiberio nel primo periodo del suo governo cercò di porre un freno alle delazioni (pur senza mai abrogare il compenso per i delatori, che si spartivano i beni confiscati dell’accusato), ma a lui Tacito ascrive la responsabilità di avere convalidato la legge augustea, rendendone l’applicazione sistematica: quando per la prima volta un pretore gli chiese se si dovesse dar corso a un giudizio per reato di lesa maestà, «rispose che le leggi si dovevano rispettare» (1,72,3). «Inasprito anch’egli», aggiunge Tacito, «per la pubblicazione di certi epigrammi anonimi che sferzavano la sua crudeltà e la sua alterigia, nonché i contrasti con la madre» (1,72,4; trad. B. Ceva).
Puoi leggere il testo degli Annales con la traduzione di R. Oniga, in Tacito. Opera Omnia, Torino 2003; oppure nell’edizione BUR, Tacito. Annali, 2 voll., Milano 1981, con traduzione di B. Ceva.
Per i primi sei libri, relativi al principato di Tiberio, puoi consultare il commento di F.R.D. Goodyear, The Annals of Tacitus, books 1-6, Cambridge 1981.
Su Tacito, fondamentale lo studio di R. Syme, Tacito, 2 voll., trad. it. di C. Marocchi Santandrea, a cura di A. Benedetti, Brescia 2019 (orig. Oxford 1958). Segnaliamo inoltre:
A. Michel, Tacito e il destino dell’impero, Torino 1973 (orig. Paris 1966).
P. Grimal, Tacito, trad. it. di T. Capra, Milano 2001 (orig. Paris 1990).
Z. Yavetz, Tiberio dalla finzione alla pazzia, Bari 1999.
Una ricostruzione della figura di Tiberio, sulla scorta di Tacito, ma con un taglio più narrativo in L. Storoni Mazzolani, Tiberio o la spirale del potere, Capri 1981.
Crediti immagini: frontespizio degli Annali di Tacito (edizione del XVI secolo) – immagine caricata su Wikipedia