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La forza della ragione, per una vita pienamente umana

Analizzando gli studi di Epicuro sul fine ultimo della vita umana e sulla conoscenza, Michela Mariotti presenta l’analisi del concetto di ragione nell’antichità.

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La ricerca del fine ultimo della vita

Anche gli antichi conoscevano l’angoscia esistenziale. Nell’età ellenistica, quando il cittadino della polis sperimenta la crisi del proprio ruolo sociale, diventando suddito di un impero, la ricerca filosofica si sposta sul versante dell’etica e si concentra sul problema della felicità individuale. Qual è il fine ultimo (τέλος [tèlos]) della vita umana? Quale il sommo bene, capace di dare senso pieno all’esistenza? Le risposte elaborate dalle scuole filosofiche variano giungendo a esiti quasi contrapposti (al piacere catastematico, cioè statico e invariabile, di Epicuro gli stoici oppongono la tensione verso la virtù), ma tutte partono dall’osservazione di un generale smarrimento del senso della vita, e tutte individuano nella ragione (ratio, λόγος [lògos]) lo strumento privilegiato per dare piena dignità all’esistenza umana.

Il messaggio di salvezza della filosofia epicurea

L’umanità si dibatte nelle tenebre accecata da falsi ideali, erra smarrita alla ricerca di un senso che fama, potere, ricchezza non possono dare, trascina la vita nell’oppressione, schiava della paura della morte, tenuta sotto scacco dalla minaccia di divinità vendicative: Lucrezio (De rerum natura 2,10 ss.; 1,62 ss.) dipinge così la sofferenza esistenziale dell’essere umano. Ma la filosofia epicurea offre una via di salvezza, l’indagine scientifica della natura sgombra il campo dalla paura della morte e dal timore degli dèi, radici di tutte le passioni che tolgono gioia alla vita. Lucrezio ha imparato la lezione di Epicuro e ora che si mette alla sua sequela (te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc/ ficta pedum pono pressis vestigia signis, 3,2-3) sente l’urgenza di comunicare al pubblico romano (nella persona di Memmio, destinatario interno del poema) il messaggio di salvezza contenuto nella dottrina del maestro.

La scienza della natura libera l’essere umano dalla paura della morte e degli dèi

Epicuro per primo è riuscito a penetrare i segreti della natura con la sua indagine razionale. Senza lasciarsi influenzare dal pensiero comune, ha sostituito alle opinioni non verificate (δόξαι [dòxai]) una conoscenza scientifica fondata sulla dimostrazione razionale (ἐπιστήμη [epistème]). Dall’osservazione dei fenomeni celesti l’umanità ha derivato la falsa credenza sull’esistenza di divinità che interferiscono con le attività dell’essere umano: Epicuro ha dimostrato che tuoni, fulmini e gli altri fenomeni atmosferici non sono manifestazioni della volontà divina, ma ubbidiscono a rigorose leggi di natura. Gli dèi, estranei al mondo, alla sua creazione e alla sua storia, vivono beati e imperturbabili negli intermundia, gli spazi celesti tra i mondi (che sono di numero infinito), senza nutrire alcun interesse per il destino dell’uomo. L’essere umano perciò può venerarli come modello perfetto di pace imperturbabile (ἀταραξία, «mancanza di turbamento»), ma non ha motivo di temerne le punizioni né in vita né dopo la morte (le pene degli Inferi essendo la principale causa della paura della morte).

Un’impresa eroica degna di un animo grande

Un’impresa intellettuale enorme, quella di Epicuro, che Lucrezio (1,62-79) rappresenta come epica lotta tra l’eroe benefattore e il mostro, la religio, che occupa il cielo (non a caso, dato che dal cielo l’uomo ne ha ricavato l’idea) e schiaccia dall’alto l’umanità con il suo essere occhiuto e terrificante: «Per primo un uomo greco osò levare lo sguardo per provocarla, per primo osò ergersi contro di lei» (1,66-67). Lucrezio fa ripetere a Epicuro le azioni previste dal codice del duello omerico (tendere contra / est oculos ausus … obsistere contra) attribuendogli così il coraggio e la magnanimità che l’eroe epico simboleggia. L’indagine scientifica della natura richiede infatti non solo acutezza d’ingegno, ma anche una straordinaria forza morale: il trionfo di Epicuro sulle false credenze è frutto della sua vivida vis animi (v. 72), dello sforzo vigoroso del suo animus; la sua ricerca scientifica si configura come un volo della mente che oltrepassa lo strato igneo dell’etere posto intorno al mondo (extra / processit longe flammantia moenia mundi, «e molto avanzò al di là delle fiammanti mura del mondo», v. 73), varcato il quale Epicuro percorre l’universo nella sua immensità mente animoque, con tutte le sue energie, intellettuali e morali. Dalla spedizione ai confini del mondo, l’eroe filosofo torna vincitore recando all’umanità un prezioso bottino di conoscenza: la scoperta delle leggi della natura.

Sulle orme di Epicuro

Uno straordinario viaggio della ragione che il discepolo epicureo è chiamato a ripetere: «Non appena la tua dottrina (detta ratio, in quanto sistema ordinato, come la “ragione” di cui è il prodotto) ha cominciato a spiegare a chiare lettere la natura delle cose, rivelata dalla tua mente sovrumana, si dileguano i terrori dell’anima, le mura del mondo si fanno da parte, e vedo le cose muoversi nel vuoto infinito (totum video per inane geri res)», 3,15-17. La natura si rivela infatti costituita da vuoto e materia e la materia fatta di atomi, indistruttibili, infiniti di numero, di varia dimensione, forma, peso e colore, che si muovono nel vuoto infinito aggregandosi a costituire le cose esistenti, e si disgregano poi per tornare a muoversi e originare altri corpi. Ecco che allora al discepolo sulle orme di Epicuro «appaiono» le sedi serene degli dèi, separate dal mondo e dagli esseri umani, mentre «non appaiono da nessuna parte» gli Acherusia templa, il mondo degli Inferi, sede delle pene eterne che l’uomo teme dopo la morte, né la terra «impedisce di vedere» il movimento atomico nel vuoto sottostante (3,18-27). Apparet…, At contra nusquam apparent…, nec obstat quin despiciantur…: la struttura del mondo descritta dall’atomismo professato da Epicuro si rivela con l’evidenza concreta delle immagini visive. La conoscenza si fa certa perché si fonda sull’evidenza dei sensi, che non si ingannano mai (quando sembrano ingannarsi, infatti, l’errore dipende da un falso giudizio della ragione sulla percezione sensibile, di per sé infallibile).

L’analogia come metodo di conoscenza razionale

Non a caso lo strumento privilegiato dell’argomentazione lucreziana è l’analogia, nella forma della similitudine o dell’esempio. L’analogia, che istituisce una relazione tra ordini diversi (vegetale e animale, corporeo e incorporeo, visibile e invisibile…), permette a Lucrezio di superare i limiti dell’intelligibile, riconducendo l’ignoto al noto.

Per esempio, per dimostrare l’esistenza degli atomi invisibili, Lucrezio osserva che ci sono altri corpi di cui non si può negare l’esistenza, ma altrettanto invisibili: nessuno dubita infatti dell’esistenza del vento che «agita il il mare, rovescia navi enormi e disperde le nubi» (1,271 s.) appunto perché se ne possono verificare gli effetti distruttivi; ma poiché nemmeno i venti si vedono ecco un’altra analogia a completare la dimostrazione: nec ratione fluunt alia stragemque propagant…, «i venti fluiscono e seminano distruzione in maniera non diversa» dalla corrente impetuosa di un torrente in piena (l’uso metaforico del verbo fluo anticipa e sottolinea la relazione tra i due corpi), questo sì pienamente percepibile con la vista e con tutti gli altri sensi. L’analogia rende conoscibile una realtà (la realtà atomica) che sfugge alla percezione sensibile (fondamento della gnoseologia epicurea), grazie alla relazione che si riconosce prima con una realtà altrettanto inafferrabile ai sensi (il vento), ma di cui sono ben tangibili gli effetti, poi con la realtà pienamente sensibile della corrente dei fiumi: così ciò che sfugge alla percezione sensibile diventa conoscibile per analogia con la realtà sensibile.

In Lucrezio l’analogia è molto più di uno schema retorico è un criterio di conoscenza ordinato in un struttura razionale, è la forma in cui si struttura il pensiero nel processo della conoscenza.

La fatica dell’impresa e il premio della sapientia

Se la conoscenza, secondo il materialismo sensistico epicureo, si realizza per acquisizione ordinata di immagini visive, il lettore del De rerum natura si trova davanti allo spettacolo grandioso della natura, che si dispiega sotto i suoi occhi dal macrocosmo dell’universo infinito al microcosmo del corpo umano. Di fronte all’immagine del vuoto percorso dal movimento atomico, Lucrezio confessa di provare un «brivido misto a divino piacere» (divina voluptas atque horror, 3,28-29): è la vertigine di chi scopre una realtà che lo sopravanza, che suscita un senso di inadeguatezza, il senso di una sproporzione che si può colmare solo tenendo saldo il timone della ragione fino a raggiungere quella divina voluptas che aspetta il discepolo al compimento del processo conoscitivo. L’apprendimento della scienza della natura è un’esperienza che coinvolge i sensi e la mente, che richiede una tempra morale non inferiore a quella del suo inventor, Epicuro. Un impegno che però è ampiamente ricompensato dal risultato promesso: la liberazione dalle passioni, e quindi la mancanza di turbamento (ἀταραξία) e il piacere inteso come assenza di dolore (ἀπονία [aponìa]), per il quale è necessaria soltanto la soddisfazione di bisogni elementari, quelli naturali e necessari (non avere fame, né sete, né freddo, cf. Gnom.Vat.33). Non l’edonismo gaudente rimproverato all’epicureismo dai suoi detrattori, ma uno stato di gioia di cui gode la ragione: «Come non rendersi conto che la natura non reclama nient’altro per sé, se non che il dolore sia rimosso e lontano dal corpo e che nella mente possa godere di un senso di gioia (mente fruatur/ iucundo sensu) libera da affanni e paure?» (2,16-18).

La ragione, principale animi nella dottrina stoica

Se per gli epicurei l’anima è fatta di atomi (che si disgregano dopo la morte) ed è quindi mortale, per gli stoici l’anima, immortale, è composta di pnèuma (πνεῦμα, «soffio», lat. spiritus), una sostanza volatile che si forma per evaporazione dai liquidi corporei, soprattutto dal sangue, diffusa in tutto il corpo. Il pneuma non si trova solo nell’anima umana ma è presente in tutto il mondo, e assume forme diverse che scandiscono una gerarchia dell’essere (scala naturae), dai minerali, alle piante, agli animali, all’essere umano, agli dèi.

Secondo la teoria stoica, di derivazione platonica, l’anima umana è formata da partes ministrae, con funzione di alimentazione e di movimento, e dal principale animi (questi i termini usati da Seneca nell’epistola 92,1), costituito dalla ragione e detto anche «egemonico» (ἡγεμονικόν) perché alla ragione sono subordinate tutte le altre parti dell’anima. Il ruolo dominante svolto dalla ragione si fonda sul fatto che essa deriva dalla ratio divina, che rappresenta il gradino più alto della gerarchia dell’essere. Spiega infatti Seneca: «come la ragione divina presiede a tutto ed essa a nessuna cosa è sottoposta, così lo stesso avviene nella nostra ragione, che deriva da quella (ex illa est)», ep. 92,1.

Ma come nell’epicureismo, la conoscenza della natura, in questo caso la psicologia, ha immediate ricadute etiche: riconoscere la struttura gerarchica dell’anima significa infatti riconoscere che la felicità consiste solo nella ragione perfetta: in hoc uno positam esse beatam vitam, ut in nobis ratio perfecta sit, «in questo soltanto consiste la felicità, che in noi la ragione sia perfetta» (92,2).

Ragione e ragione perfetta

La ragione è la parte migliore (optimum) dell’essere umano: essa lo rende superiore agli animali e secondo soltanto agli dèi. La ragione perfetta è il bene peculiare (proprium) dell’essere umano, mentre altre doti, come forza, bellezza, velocità, sono comuni anche agli animali (ep. 76,9). Ma se tutti gli esseri umani sono provvisti di ragione, non tutti riescono a raggiungere la ratio perfecta: «L’uomo è un animale fornito di ragione, pertanto realizza pienamente il suo bene se raggiunge il fine per cui è nato»; per farlo è necessario «che egli viva secondo la natura che gli è propria, (secundum naturam suam vivere)» (ep. 41,8), ovvero secondo la ragione stessa. Esiste una sproporzione tra ratio e ratio perfecta: per colmarla occorre proiettare la ratio sul livello superiore della ratio universale: nell’esortazione a «vivere secondo la ragione», la ragione indica non solo cioè che il proprium dell’uomo, ma anche la ragione universale da cui essa deriva, il lògos che dà ordine e forma alla materia. «La ragione non è che una parte dello spirito divino infusa nel corpo dell’uomo» (ep. 66,12), ma all’essere umano è richiesto uno sforzo per adeguarsi alla natura che gli è propria e che lo rende simile alla divinità. Mentre la ratio divina che anima il mondo coincide con il bene, è essa stessa bene, al bene l’uomo non aderisce necessariamente: il bene della divinità è perfetto per natura, quello dell’essere umano è frutto del suo impegno, della sua cura (dei bonum natura perficit, hominis cura, ep.124,14). Solo esercitare la propria ragione in accordo con la ragione universale, il lògos divino che permea l’universo orientandolo al bene, permette all’essere umano di diventare pienamente sé stesso.


Crediti immagine: Epicuro, Agostino Scilla, 1670-1680 (Wikimedia Commons)

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