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Sapere aude!

Quale cultura per l’Intelligenza artificiale?

Che effetti ha sulla nostra mente l’uso sempre più smodato della tecnologia? Claudio Fiocchi si sofferma su queste e altre domande legate a internet e all’intelligenza artificiale in ambito psicologico.

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L’espressione Intelligenza artificiale sembra a prima vista un paradosso. Un artefatto umano (come i computer o la Rete internet) è in effetti il prodotto di un’intelligenza umana che lo ha progettato e realizzato: come può a sua volta essere dotata di intelligenza? E, alla stessa stregua di una creatura che si ribella al proprio creatore, può imporre all’intelligenza umana i propri ritmi e i propri schemi?

Fin dalla comparsa del celebre articolo Google ci rende stupidi? di Nicholas Carr (2010) psichiatri e psicologi si interrogano su difficile confronto tra le due intelligenze.

L’articolo di Carr e un suo successivo libro hanno scatenato un ampio dibattito di cui è difficile riassumere il profilo. Può essere utile leggere un articolo dell’epoca https://www.ilpost.it/2010/06/07/google-ci-rende-un-po-stupidi/ 

Destinati alla demenza?

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer non ha dubbi sugli esiti devastanti provocati dai media digitali e dai computer sulla mente delle persone. Abituati a delegare agli strumenti elettronici molti compiti, come consultare una mappa o cercare facili informazioni, i cervelli si atrofizzano. E sottoposti a una quantità di informazioni eccessive rispetto alle loro capacità di gestione, finiranno per capitolare e preferire una conoscenza superficiale a un impossibile approfondimento. Scritto qualche anno prima del dibattito sull’intelligenza artificiale, Demenza digitale (2012) traccia inoltre un ritratto impietoso dei nativi digitale e dell’abuso dei mezzi digitali, disegnando un futuro a tinte fosche.

Il testo di Spitzer è stato oggetto di varie critiche. Tra quelle meno tecniche vi è quella di non aver esaurientemente analizzato gli aspetti di reazione soggettiva all’uso dei media, come emerge dall’articolo dall’articolo di Roberto Pozzetti La demenza digitale esiste? Impariamo a distinguere, con la ricerca “single case”.
 https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-demenza-digitale-esiste-impariamo-a-distinguere-dalla-ricerca-single-case/

Troppe informazioni

Tra i vari aspetti critici delle tecnologie digitali denunciati da Spitzer vi è la sproporzione tra le informazioni che esse sono in grado di trasmettere e quelle che la mente umana è in grado di gestire. Lo psicologo cognitivista Paolo Legrenzi (Prima lezione di scienze cognitive, 2010) allude allo stesso rischio, come effetto del diverso ritmo di sviluppo della mente umana e delle nuove tecnologie. Frutto infatti di una lenta selezione biologica millenaria, il cervello umano non ha gli strumenti per gestire un flusso di informazioni troppo rapido e troppo ricco. Queste “protesi”, come vengono chiamate da Legrenzi, vanno dunque usate in modo consapevole.

Una intelligenza umana o sovraumana?

A questo punto la questione diventa quella di capire come adattarsi a un nuovo contesto, che l’essere umano stesso sta creando. Anche se con accenti diversi Spitzer e Legrenzi ci hanno fatto intuire i rischi impliciti nell’uso di una tecnologia che è sempre più distante da noi per via della nostra incapacità di comprenderla al meglio.

Eppure, si potrebbe dire che essa popola il nostro ambiente di vita in modo preponderante. A ben vedere, questo non dovrebbe essere causa di stupore. La storia della nostra specie è nello stesso tempo la storia di una evoluzione di mezzi tecnologici. Secondo Sloman e Fernbach (Illusione della conoscenza, 2018): «I nostri corpi e cervelli sono progettati per includere nuovi strumenti nelle nostre attività, quasi fossero estensioni dei nostri corpi». Essi però restano solo degli strumenti, che non condividono la nostra intenzionalità. La forza dell’intelligenza artificiale, da questo punto di vista, è di riuscire a riunire insieme le conoscenze di un consorzio umano, costituito spesso da persone che non si conoscono o addirittura non hanno alcuna relazione le une con le altre. La sua competenza in un determinato settore (immaginiamo di porre dei quesiti a ChatGPT non è quindi per nulla sovraumana, ma l’unione di conoscenze individuali.

Gli strumenti digitali sono degli idiots savants?

La riduzione dell’Intelligenza artificiale a una sorta di idiot savant, come la definisce l’informatico Erik J. Larson (Il mito dell’intelligenza artificiale, 2022), è per certi versi consolante, perché riduce quest’ultima al rango di strumento della nostra intelligenza naturale.

Chiarita la natura di mezzo dell’Intelligenza artificiale, il problema sembra spostarsi dallo strumento al suo utilizzatore, che ignorando il funzionamento dell’Intelligenza artificiale e spesso dell’oggetto o dei compiti che affronta tramite essa, si trova tra le mani un simulacro di conoscenza e non un sapere autentico. La soluzione? Il fattore tempo e la nostra coevoluzione con la tecnologia potrebbero giocare a nostro favore, quando riusciremo a trarre vantaggio dalla comunità della conoscenza.

Alla ricerca di una nuova interazione

Un altro rischio però si palesa e cioè che a un livello più profondo possano essere i nostri stessi strumenti a plasmare la nostra mente. L’assuefazione all’approssimazione, alla mancanza di originalità, alla pratica del copia incolla quali effetti potrebbe avere sulla nostra creatività e il nostro senso critico? La sensazione di avere il mondo sulla punta delle dita (che sfiorano i tasti di un dispositivo) non è un disincentivo a conoscere il mondo dal vivo? La questione allora non è se, ma come evolverci culturalmente per restare intelligenti in un mondo di algoritmi e di profilazioni, ossia come imparare ad adottare questi strumenti in un’ottica di pensiero critico e di creatività.

Qualche ipotesi sull’uso dell’IA a scuola sono espresse da Ivan Ferrero in questo articolo:
https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/intelligenza-artificiale-nellapprendimento-le-sfide-per-docenti-e-ragazzi/ 

Crediti immagine: peshkova / 123RF

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