Che la speranza sia una componente fondamentale della vita umana è una verità facilmente accettabile dal senso comune; ma che possa essere oggetto di una riflessione interna alle scienze umane non è intuitivo e richiede una riflessione introduttiva. Se, infatti, per statuto epistemologico le scienze umane si occupano non solo della cause materiali dell’agire umano, ma anche dei costrutti mentali, allora la speranza (al pari di altre condizioni dell’animo umano) può diventare oggetto di studio. Non si tratta allora di capire perché si prova la speranza, ma che cosa la speranza possa provocare.
La speranza è come una tigre rannicchiata, che salta solo quando è il momento
Uno spunto importante sul tema della speranza è offerto dallo psicologo Erich Fromm (1900-1980), autore di un volumetto intitolato non a caso La Rivoluzione della speranza. Pubblicato nel 1968, in un clima culturale di critica alla società occidentale e al capitalismo, quest’opera delinea alcune condizioni per uscire da un contesto di industrializzazione e disumanizzazione: la speranza di riuscirvi appartiene a esse. Ma è soprattutto in sede di premessa che Fromm enuncia una serie di interessanti considerazioni sui caratteri della speranza.
Egli definisce la speranza uno stato d’essere, ossia un elemento intrinseco della struttura della vita. Anzi, la speranza è necessaria perché ci sia una vita autentica, una capacità di crescita e di sviluppo. Per spiegare questo concetto, egli adotta esempi a prima vista sconcertanti, come lo sforzo di un albero che si piega verso una zona illuminata, lo slancio di un bambino piccolo che cerca di imparare a camminare, la concentrazione della tigre pronta a compiere un balzo.
In questo modo Fromm intende indicare che la speranza non è tanto un desidero conscio, quanto un atteggiamento dinamico, che fa progredire l’esistenza. Senza di essa, conclude lo studioso tedesco, le persone si abbandonano a un ottimismo medio e perdono la capacità di sognare o, peggio ancora, cadono nella infelicità, nell’odio verso la vita o nella violenza.
La speranza in psicoanalisi
Le tesi di Fromm sono espresse in modo molto diretto e poco dialettico, come verità ovvie, tanto facili da cogliere da non dover essere argomentate. Non sono però isolate, ma si inseriscono in una corrente della psicoanalisi (in cui spiccano Erik Erikson e Charles Richard Scnhider) che valorizza la speranza come componente di un percorso terapeutico.
A chiarire questo concetto è soprattutto lo psicanalista Stephen A. Mitchell (1946-2000), autore di un importante studio intitolato Speranza e timore in psicoanalisi. Con molta nettezza, a suo avviso, alcuni autori della psicoanalisi individuano nelle speranze dei pazienti i residui di un mondo infantile, che vanno superati attraverso una crisi perché molto lontani dalla realtà. Per altri invece la speranza è una virtù costruttiva e, quando di origine infantile, va riattivata e trasformata in qualcosa di più maturo.
Mitchell condivide questa seconda prospettiva in quanto psicoterapeuta che deve lavorare con e per il paziente per migliorarne la vita. Prendendo le distanze dalla psicoanalisi freudiana – che intende smascherare comportamenti e idee dei pazienti per ricondurli alle pulsioni autentiche - e puntando invece a sviluppare una esperienza del mondo ricca e soddisfacente, Mitchell non può ignorare il valore delle speranze: ma in che modo?
Una parte importante della sua riflessione riguarda il rapporto tra terapeuta e paziente. È corretto che, in nome della professionalità, il terapeuta si attenga a un “esercizio professionale ordinario” e a fornire buone interpretazioni? La risposta di Mitchell è negativa perché, di fatto, ogni terapista cerca di adattare la terapia al paziente, per coinvolgerlo, “per farlo sentire abbastanza connesso” in modo che si senta più propenso a partecipare alla psicoterapia.
In questo processo le speranze del paziente, conclude Mitchell, sono “sbagliate”, perché sono un mix di bisogni e frustrazioni, ma attraverso un lungo percorso possono trasformarsi nella speranza “giusta” per la vita del paziente.
Come integrare le speranze nella psicoterapia del malato?
La conclusione di Mitchell, a prima vista generica, diventa immediatamente più comprensibile ed efficace quando la si cala in ambiti particolari, come il trattamento psicoanalitico dei malati.
Chi è affetto da infertilità, da una malattia autoimmune, da fibromialgia o altri disturbi può essere felice? Lo psicoterapeuta che supporta i malati, spiegano i molti interventi contenuti nel volume Il corpo malato,deve agire con una certa “duttilità”, perché di volta in volta può dare ascolto a un dolore incompreso, supportare il paziente a vivere la sua condizione, o stimolarlo a trovare altre strade e obiettivi rispetto a quelli perseguiti prima dell’insorgere della malattia.
Dato che il termine “speranza” appare raramente nel lessico della psicoanalisi, non è forse improprio accostarlo al termine oggi molto più in uso di “resilienza”, ossia la capacità di riorganizzare in modo positivo la vita quando ci si trova di fronte a una situazione drammatica. A questo proposito, è interessante notare che la psicologa Lisa Galli, in Quando la vita cambia colore. Reagire al dolore e alla malattia, individua nella resilienza il presupposto per non restare intrappolati nel ruolo di malato. La resilienza è costituita da tante componenti personali: introspezione, indipendenza, interazione, iniziativa, creatività, umorismo, etica. Ma forse a fare da collante a questo settenario è proprio la speranza.
Bibliografia
AAVV., Il corpo malato. L’intervento psicologico, a cura di Bruno B. Bara, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023
Erich Fromm, La Rivoluzione della speranza. Per costruire una società più umana, Bompiani, Milano 1992.
Lisa Galli, Quando la vita cambia colore. Reagire al dolore e alla malattia. Con una testimonianza di Nicoletta Mantovani Pavarotti, Mondadori, Milano 2009.
Stephen A. Mitchell, Speranza e timore in psicanalisi. Nuova edizione a cura dell’Istituto Mitchell- Torino, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2024.
Stephen A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
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