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Spes ultima dea

Le metamorfosi della Speranza, dal sacro al profano

In quanto virtù teologale della religione cristiana, la speranza è stata protagonista di molte opere d’arte. Nel Cinquecento l’accademico Cesare Ripa la descrive in un testo fondamentale che arriva a influenzare anche lo scultore neoclassico Antonio Canova. All’inizio del Novecento Gustav Klimt ha dipinto due volte la speranza, scandalizzando per la sua interpretazione tra sacro e profano.

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Assieme a Fede e Carità, la Speranza è compresa nella triade delle virtù teologali nell’ambito della religione cristiana, concetti che sono stati spesso raffigurati in forma di allegorie nella storia dell’arte occidentale antica e moderna. Delle tre, la Speranza è definita quel moto che, in virtù della promessa del Paradiso e della beatitudine enunciata dal Vangelo, aspira alla felicità, persegue il conseguimento di quello stato di perfezione che ambisce all’unione con il divino.

Nei secoli la rappresentazione di questa allegoria ha subito alcune modificazioni sia nell’iconografia sia nel suo significato, che, da profondamente religioso nei secoli antichi, si è mutato in laico ed universale agli inizi del Novecento.

L’Iconologia di Cesare Ripa

Siamo sul finire del Cinquecento, quando Cesare Ripa, un ordinario accademico perugino, riesce ad entrare a Roma nella cerchia del cardinale Antonio Maria Salviati. Usufruendo delle erudite amicizie del prelato e della sua fornita biblioteca, compone l’Iconologia che, una volta pubblicata nel 1593, gli vale il titolo di Cavaliere da parte di Papa Clemente VIII.

L’opera presenta un ordinamento alfabetico e descrive le personificazioni di molti concetti astratti, intessendo relazioni erudite tra testo e immagine. Il testo ben presto diventa famoso e nei secoli viene più volte rivisto, commentato e ripubblicato. In virtù dell’ampia diffusione e del successo ottenuti, diventa «Il» manuale di iconologia per eccellenza usato dagli artisti fino alle soglie dell’età contemporanea. Ripa descrive le allegorie prendendo sputo in primis dall’antichità, storica e mitologica, e dalle Sacre scritture, non tralasciando ambiti eruditi settoriali, come ad esempio la numismatica, la cromatica e la fisiognomica.

La prima iconografia della Speranza che viene illustrata nell’opera è ripresa dalle monete romane. Il sesterzio dell’imperatore Claudio, al rovescio, riproduce una “donna vestita di verde, con un giglio in mano, perché il fiore ci mostra la Speranza, la quale è aspettazione del bene, sì come all’incontro il timore è un commovimento dell’animo nell’aspettazione del male.” La scelta del colore verde è data “per la similitudine dell'herbe, che danno speranza di buona raccolta”.

Una seconda iconografia, che lega Speranza e Amore secondo i testi di Sant’Agostino, è rappresentata da una donna sempre vestita di verde, “con una ghirlanda di fiori, tenendo Amore in braccio, al quale dia a suggere le proprie mammelle”, individuando una declinazione materna del tema.

Una terza variante dell’allegoria della Speranza descritta nell’Iconologia viene ripresa, quasi due secoli più tardi, in un’opera di Antonio Canova.

La Speranza dei bassorilievi Rezzonico di Antonio Canova

All’interno della varia produzione di Antonio Canova, massimo scultore neoclassico, possiamo rintracciare la raffigurazione dell’allegoria della Speranza in due opere, entrambe legate alla famiglia dei Rezzonico.

Il principe di Roma Abbondio Rezzonico, nipote di Papa Clemente XIII, era mecenate e amico dal giovane Canova e, in virtù di questo rapporto privilegiato, aveva acquistato una serie di bassorilievi per esporli nella villa che possedeva a Bassano del Grappa. Nel corso dell'Ottocento la collezione passa prima nelle proprietà dell'erudito e bibliofilo Antonio Piazza, poi nelle collezioni dei conti di San Bonifacio e ora questi celebri gessi sono esposti alle Gallerie d'Italia di Piazza Scala a Milano. I temi che compongono il ciclo dei bassorilievi comprendono le storie dell’Iliade e dell’Odissea, alcune scene bibliche e tre bassorilievi allegorici (Speranza, Carità e Giustizia), che sono le prime opere realizzate di questa serie. Se il bassorilievo in gesso della Giustizia è un’opera originale, mai realizzata in marmo, i calchi in gesso delle due virtù, Speranza e Carità, derivano dalle figure già scolpite in marmo sulla fronte del sarcofago del monumento a Clemente XIII, datato nel decennio 1783-1792.

Il bassorilievo della Speranza è una donna matura seduta, che ricorda le caratteristiche declinate nell’Iconologia del Ripa: “con un arboscello fiorito in capo, la veste sarà tutta piena di varie piante, e nella sinistra terrà un'ancora. Due sono le qualità del bene, che si può desiderare, una è l'onestà, l'altra l'utilità, quella si accenna con la pianta fiorita, che sono gli ornamenti d'onore; l'altro con l'ancora che aiuta nei pericoli maggiori della fortuna.”

La presenza dell’ancora come attributo trova riferimenti nella Lettera di San Paolo apostolo agli ebrei (n. 6), in cui la Speranza è paragonata a un'ancora sicura e salda per la vita del fedele. Con lo stesso significato l’ancora era dipinta in epoca paleocristiana nelle catacombe, associata al suo ruolo di mantenere salda la rotta durante le tempeste in mare. Il bassorilievo milanese della Speranza di Canova, datato alla fine del Settecento, segue ancora le indicazioni dell’Iconologia del Ripa, uno dei fulgidi esempi del suo impiego, prima che il manuale patisca il suo lento oblio.

La Speranza I e Speranza II di Gustav Klimt

Nel primo decennio del Novecento, il più importante esponente dell’Art Nouveau si cimenta nella raffigurazione della Speranza, con due dipinti del suo “periodo aureo”. Gustav Klimt sveste l’immagine e nel 1903 crea la Speranza I come una donna nuda, in avanzato stato di gravidanza, dando scandalo per una condizione quasi mai rappresentata nell’arte. Alta ed esile, lattiginosa, con il ventre prominente, la Speranza mostra un’espressione ingenua e dubbiosa sul volto che si volge verso lo spettatore. Rappresentata in modo realistico, la donna esibisce la sua sensualità attraverso la chioma e il pube fulvi, incarnando sia la Madre sia la femme fatale, esplicitando un dualismo archetipico in voga al tempo.

Come spesso accade nelle immagini di Klimt, Eros e Thanatos s’intrecciano, al pari della coroncina di fiori che dal capo della Speranza prosegue sul capo della vicina sagoma nera, un grosso mostro, identificato come un rettile. Il mostro sembra fluttuare in uno spazio indefinito blu, oro e rosso, e mostra la propria ostilità con l’esibizione degli artigli vicino al margine della tela.

In alto, con uno schema già sperimentato nella parete dedicata alle forze oscure nel Fregio di Beethoven, trovano posto i “demoni della vita”, una serie di teste demoniache angoscianti, aguzze e smagrite, deformate e funeree che, dal punto di vista stilistico, preannunciano le distorsioni dell’Espressionismo tedesco. Tra queste funeste figure, spicca un teschio minaccioso, posto proprio sopra alla testa della Speranza, quasi a volerle mordere il capo.

Si nota una violenta contrapposizione tra il naturalismo e la delicatezza del nudo della Speranza e l’aspetto orrifico e caricaturale dei “demoni della vita”. Viene messa in scena una visione dualistica tra Bene e Male, allusione al ciclo della Vita e della Morte, tramite un’alternanza stilistica tra naturalismo e astrazione, con l'intento di accrescere il senso di sconcerto e d'incertezza nei confronti di un evento generalmente considerato positivo come la nascita. Il senso angoscioso della vita viene affidato ai “demoni della vita” che rappresentano il mondo ostile che il nascituro dovrà affrontare, una volta nato, una volta abbandonato il protettivo e consolatorio grembo materno.

Speranza I, innovativa per l’esibizione impudica dello stato di gravidanza accompagnata da un’atmosfera funerea, suscitò decise perplessità: fu intimato di non esporla alla mostra personale dell’artista di quell’anno e il proprietario, il mecenate Fritz Wärndorfer, la tenne ben nascosta nella propria collezione, chiusa entro una teca. In questo dipinto Klimt illustra l’angoscia per una nuova vita vissuta come il simbolo di una speranza universale contro le insidie del mondo.

Qualche anno dopo Klimt ritorna sul tema con Speranza II (1907-8), mutando alcune componenti iconografiche. Al centro, isolata come un’icona, una donna incinta s’impone come un idolo di profilo che giganteggia, bidimensionale, sullo sfondo pulviscolare dorato e verdastro. Nell’abito a dominanza rossa Klimt sfoggia una decisa varietà di stilemi arcaicizzanti: alle tassellature geometriche dei mosaici ravennati aggiunge i repertori decorativi orientali di tappeti e miniature, simboli di tradizione micenea e richiami al giapponismo.

Con i seni scoperti, la mano alzata e il capo reclinato, come in meditazione, la Speranza è intenta a dialogare con il figlio che porta in grembo. Incombe sulla donna, e disturba questo muto colloquio, il presagio funereo di un teschio, posizionato sul ventre, mimetizzato tanto da sembrare un ulteriore elemento decorativo dell’abito. In basso, incapsulate nel vestito, tre vergini, con occhi chiusi e mani in adorazione del mistero della vita o in preghiera per scongiurare la morte del nascituro, sono partecipi dei sentimenti della Speranza. Dal punto di vista grafico queste figure si contrappongono idealmente ai “demoni del mondo” sullo sfondo in alto della Speranza I.

Se nella prima opera il senso angoscioso della vita era dominante, nel dipinto Speranza II l’atmosfera è maggiormente contemplativa. In entrambe le opere Klimt pone una Madre e la maternità come simbolo di Speranza, riallacciandosi idealmente a una delle declinazioni enunciate nell’Iconologia del Ripa ma interpretandola in chiave moderna, laica e universale. Ambedue le opere di Klimt risentono in modo profondo del clima culturale della Vienna di inizio secolo. La capitale dell’impero asburgico era a quel tempo scossa dal punto di vista sociale dalle teorie psicanalitiche di Sigmund Freud, teorie che mettevano in luce le pulsioni umane più nascoste e il ruolo dell’inconscio, aspetti che trovano nell’opera di Gustav Klimt una compiuta forma visiva.

Per saperne di più:

M. Cavenago, L. Spano, Klimt: l'opera pittorica completa, Firenze Rusconi, 2017
E. di Stefano, Klimt. L’artista e le opere, Firenze Giunti, 1999
F. Mazzocca, Antonio Canova e i bassorilievi della collezione Rezzonico, Milano Cariplo 1993
C. Ripa, Iconologia, a cura di Sonia Maffei; testo stabilito da Paolo Procaccioli, Torino Einaudi, 2012


Crediti banner: Gustav Klimt (1862–1918), La Speranza I, 1903, olio su tela, 181x67 cm, Ottawa, National Gallery of Canada

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Speranza, in C. Ripa, Iconologia, incisione nel volume edito da Pietro Paolo Tozzi, Padova, 1625, p. 630 (crediti)

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Antonio Canova (Possagno 1757 - Venezia 1822), La Speranza, 1792, gesso, 123 x 132 cm, Collezione Fondazione Cariplo Gallerie d’Italia - Milano - Crediti: Fondazione Cariplo / Foto Paolo Vandrasch, Milano

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Gustav Klimt (1862–1918), La Speranza II, 1907-1908, olio su tela, 110x110 cm, New York, The Museum of Modern Art 

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Gustav Klimt (1862–1918), La Speranza I, 1903, olio su tela, 181x67 cm, Ottawa, National Gallery of Canada

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