Raccontare è conoscere
Raccontare storie (inventate o meno) è una forma di comunicazione che si ritrova in ogni società a ogni latitudine e in qualunque tempo: un universale umano a tutti gli effetti. Perché? Una risposta ragionevole e più che in parte dimostrata recita come segue: perché il racconto, o più precisamente la costruzione di un racconto (cioè quella pratica che oggi va comunemente sotto la definizione di storytelling) è un meccanismo cognitivo che facilita l’acquisizione di conoscenze.
Il dato è stato verificato, tra l'altro, osservando il comportamento dei bambini, che per l’appunto tendono a organizzare l’esperienza in racconto, elaborando le nuove conoscenze (siano esse dati o concetti) in termini di analogia con fatti noti sviluppandole in narrazione. Per fare un esempio banale, ma che spero serva a rendere l’idea, prendiamo la nozione del dolore fisico: l’esperienza del dolore è tutt'altro che facile da rendere in termini concettuali e dai bambini viene acquisita, razionalizzata e normalmente formulata attraverso un racconto minimo, che tiene in sommo conto gli aspetti esteriori e visibili del fenomeno: la sofferenza personale, quando occorra indicarne l’intensità, può essere espressa da una frase del tipo “come quando mi sono sbucciato il ginocchio e mi è uscito il sangue”.
Sulla validità dello storytelling come strumento didattico infantile vd. una sintesi (in inglese) a questo link
In breve: lo storytelling, ovverosia l’affabulazione, la costruzione di un racconto, è una capacità cognitiva dell’essere umano, ed è per questa semplicissima ragione che viene praticata e sviluppata sempre e comunque, secondo modi e tecniche diversificati da cultura a cultura, restando però sempre una delle forme principi di verbal art.
Una forma di storytelling è illustrata da Alessandro Baricco a questo link.
Per sottolineare l’importanza dello storytelling basti ricordare che l’organizzazione efficace di un racconto è oggetto di studio e analisi nel marketing, per organizzare al meglio le strategie comunicative finalizzate alle vendite.
Per i fondamentali aspetti cognitivi dello storytelling nei bambini si può vedere questo sito.
Per la possibilità e l’efficacia di ‘comunicare dati’ organizzandoli in racconto si può vedere questo sito.
Il mito come racconto
Tra le prime forme di racconto, anche qui in ogni società e a ogni latitudine, troviamo il racconto di “miti”: il che è una tautologia, dato che mito vuol dire appunto “racconto”. Un racconto paradigmatico, questo sì, che vale come modello con funzione conativa niente affatto secondaria: funziona come una sorta di pietra di paragone per il singolo individuo nel suo contesto sociale, che deve – stando al paradigma mitico – compiere o non compiere certe azioni, adottare o non adottare certi comportamenti etc. I primi miti che incontriamo sono i miti di creazione (genesi del mondo, origine degli dei etc.): la giustificazione ontologica dell'esistente. Poi miti legati a personaggi straordinari, spesso sovrumani, dalle caratteristiche fisiche o intellettuali a volte controintuitive: modelli o antimodelli di pensiero e azione. E si potrebbe continuare. L'invariante è precisamente il fatto che tutto è raccontato, narrato, più o meno per filo e per segno.Il racconto per eccellenza nella Grecia arcaica: l'epos
Nel caso della cultura greca arcaica, questi racconti paradigmatici sono organizzati in una precisa forma espressiva: l’epos. L’epos è la parola autorevole in una società a oralità dominante, ed è una parola altamente formalizzata: l’epos si avvale di una lingua autonoma lontana dai sistemi linguistici storicamente parlati (giovi ricordare la nozione di Kunstsprache, o la più modesta ma non meno efficace definizione di "dialetto epico" a descrivere quel composto chimico irreversibile che è la lingua epica), metricamente organizzata a formare sequenze chiuse (esametri) ripetibili in sequenza, ovvero particolarmente adatte a una narrazione distesa. E non è un caso, dunque, che tra i racconti più distesi che possediamo ci sono i due poemi epici per antonomasia, l'Iliade e l'Odissea.Un'enciclopedia tribale
È nel racconto epico, o meglio attraverso il racconto epico, che vengono filtrate, elaborate e sanzionate le esperienze, le pratiche, i valori di una intera società. L’epos come "enciclopedia tribale", secondo una efficace e felice definizione di E. A. Havelock, che per primo, conducendo un'analisi sistematica della narrazione del I libro dell'Iliade, ha messo in evidenza come si tratti di una vera e propria summa di fatti socialmente rilevanti: il testo veicola una pluralità di contenuti che riguardano consuetudini politiche, valori etici, norme procedurali, comportamenti della vita sociale, aspetti religiosi e rituali, saperi tecnici.
Il testo fondamentale di E. A. Havelock è tradotto in it. col titolo Cultura orale e civiltà della scrittura, ristampato anche recentemente (Roma - Bari 2019).
Le scene tipiche: un sapere 'tecnico' organizzato in racconto
Il caso più emblematico di informazioni 'tecniche' organizzate in racconto è dato dalle cosiddette scene tipiche: sequenze di azioni che si ripetono in maniera tendenzialmente fissa (di qui la definizione di 'tipica'), con la stessa fraseologia formulare, a volte addirittura con gli ipsissima verba.
Le 'scene tipiche' sono state riconosciute come tali per la prima volta da W. Arend, Die typischen Scenen bei Homer, Berlin 1933. Queste le scene da lui individuate: 1. Arrivo e sue variazioni; 2. Offerta e pasto, con loro variazioni e combinazioni; 3. Conduzione di nave e carro; 4. Armamento e vestizione del guerriero; 5. Sonno; 6. μερμηρίζειν (il “soppesare” il da farsi, ovvero il momento del dubbio all'atto di una decisione); 7. Assemblea; 8. Giuramento; 9. Bagno.