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Di segno opposto la fuga degli intellettuali alla tavola del ricco Nasidieno nella satira 2,8 di Orazio, uno dei modelli letterari dell'episodio petroniano: qui, al riaccendersi del fuoco di fila dei cibi imbanditi (una gru divisa in porzioni e cosparsa di sale e farro, fegato di oca bianca, ingrassata con fichi succosi, spalle di lepre, tordi col petto arrostito alla fiamma e colombacci senza le cosce), «tutte ghiottonerie se il padrone di casa non fosse stato lì a illustrarne ragioni e proprietà», gli amici del poeta se ne vanno di soppiatto dal triclinio dell'ospite, prendendosi «questa vendetta, di non assaggiare niente, come se ci avesse alitato sopra Canidia, più micidiale dei serpenti africani».
Il cibo come simbolo di ricchezza e potere
Il cibo imbandito per affermare una superiorità fondata sulla ricchezza, che minaccia di fagocitare ogni altro valore, è un motivo denso di implicazioni nella società romana. Dopo l'età delle conquiste, Roma domina il Mediterraneo: un grande afflusso di merci provenienti da Oriente si riversa sui mercati della capitale e all'accresciuta disponibilità di beni di consumo corrisponde una notevole accelerazione nell'ellenizzazione dei costumi.
Uno dei casi più eclatanti è quello del nobile Lucullo, che al ritorno dalla guerra mitridatica (68 a.C.) impiegò le ricchezze accumulate in Oriente per vivere nel fasto più sfrenato: «non solo con coperte tinte di porpora e coppe tempestate di pietre preziose, con balletti e recitazioni teatrali si rese invidiato dalla gente volgare, ma anche con imbandigioni di vivande d'ogni sorta e di pasticceria elaborata in modo sopraffino» (Plutarco, Vita di Lucullo 40). Non a caso ancora oggi un pranzo raffinato e sfarzoso è detto «luculliano». Lucullo aveva perfino dotato le sue ville di allevamenti ittici (ospitati in apposite piscinae) e di riserve di volatili, per assicurare un facile e continuo approvvigionamento delle sue cucine. Apicio, aristocratico dell'età di Tiberio, autore di un trattato di gastronomia in dieci libri (De re coquinaria, di cui ci resta un rifacimento del IV d.C.), è famoso per essersi letteralmente mangiato in banchetti un capitale di oltre cento milioni di sesterzi: oberato di debiti e con un patrimonio residuo di diecimila sesterzi, preferì darsi la morte piuttosto che vivere “in povertà”.
Le prelibatezze di mare che il padrone di casa usava imbandire ai convitati sono il motivo decorativo del mosaico che adornava il triclinio della Casa del fauno a Pompei: per vederlo, clicca qui
Le proteste dei moralisti
Il lusso a tavola diventa un facile bersaglio dei moralisti, mentre si moltiplicano senza grande effetto le leggi suntuarie, a partire da una prima Lex Orchia del 181 a.C. che poneva un limite al numero di convitati per banchetto e un tetto massimo all'acquisto annuo di carne e pesce. Cesare arrivò a disporre guardie attorno al mercato con l'ordine di sequestrare i beni proibiti, e persino a far confiscare sulle mense già imbandite le merci che erano sfuggite alla vigilanza delle guardie (cfr. Suetonio, Iul. 43).
Nelle tirate dei moralisti, la tavola imbandita di cibi provenienti da tutto il mondo diventa un simbolo dell'imperialismo romano. Così Seneca: «sono a portata di mano gli alimenti che la natura ha disseminato in ogni luogo; ma passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni, varcano i mari e pur potendo calmare la fame con quattro soldi la stuzzicano a peso d'oro … Aumentate pure le vostre entrate, ampliate i vostri domini, non riuscirete mai a dilatare il vostro corpo. Quando vi sarà andato bene un affare, quando le campagne militari vi avranno reso molto, quando avrete ammassato cibo da ogni parte, vi mancherà spazio per le vostre provviste» (Cons. ad Helv. 10,5-6; trad. A. Traina).
Accecati dalla fame di ricchezze, ebbri di un dominio che si estende fino ai confini del mondo, i Romani divorano più di quanto riescano a contenere: vomunt ut edant, edunt ut vomant, «mangiano per vomitare, vomitano per mangiare» (ib. 10,3). È il cliché della sfrenata ghiottoneria dei Romani, rimasto impresso nell'immaginario collettivo fino ai nostri giorni.
Ma erano davvero così insaziabili e corrotti i Romani a tavola? Gli esempi di Marziale, di Catullo, degli amici di Orazio al banchetto di Nasidieno ci dicono altro.
Il motivo del lusso alimentare si innesta nella tradizionale difesa del mos maiorum, il sistema di valori della Roma arcaica (certo già idealizzato nell'età repubblicana), contro la penetrazione di costumi più rilassati dall'Oriente. Alla base della dieta tradizionale romana c'è la puls, una farinata di farro (Plauto definisce scherzosamente i Romani pultiphagonides, «mangiatori di polenta»): ai cereali si aggiungono verdure dell'orto, uova, formaggi, carne e pesce (questi ultimi in modica quantità). È il modello alimentare adottato dall'oraziano Ofellus, un contadino di Venosa di antico buon senso, che si vanta di non aver mai mangiato «in un giorno di lavoro, altro che non fosse legumi e cima di prosciutto. E se un ospite … era venuto a trovarmi … ce la passavamo bene non con i pesci che si vanno a comprare in città, ma con un pollo e un capretto; e poi uva di quella appesa a seccare e noci e qualche piccia di fichi facevano bello il nostro dessert» (Orazio, sat. 2,2, 116-122; trad. M. Labate). Un invito alla sobrietà alimentare. Persino in tempi di grande abbondanza.
Crediti immagini:
Apertura: "Triclinio" di ANA BELÉN CANTERO PAZ su flickr
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Box: Lawrence Alma-Tadema, "Le rose di Eliogabalo". Olio su tela, 1888.
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