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I Romani a tavola, tra intemperanze alimentari e richiamo all'antica sobrietà

Nell'antica Roma una tavola imbandita era simbolo dell'imperialismo. Tuttavia la letteratura latina mostra diversi esempi di sobrietà e contegno alimentare
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Un menù dall'antica Roma Come antipasto: malva, lattuga, porro, menta e rucola; fettine di uovo sodo con acciughine su un letto di ruta odorosa, e mammelle di scrofa (i Romani ne andavano matti) in salsa di tonno. Come piatto forte: capretto arrosto con contorno di fave e broccoli; inoltre, pollo e prosciutto, avanzo di un precedente banchetto. Come dessert: frutta matura a piacere. Il tutto accompagnato da ottimo vino e condito da umorismo garbato (gli scherzi senza fiele, sine felle ioci, che l'ospite promette ai convitati). Ecco il tipico menu di una cena tra amici nella Roma imperiale, come ce lo conserva Marziale (Epigr. 10,48). Tre portate (tria fercula) bastano per fare un banchetto: un antipasto per stimolare l'appetito, la gustatio, a base di verdure e uova; la portata principale, che prevede piatti di carne o pesce (la carne è rappresentata soprattutto dal maiale, ma anche da carni ovine e caprine, da pollame, cinghiale e piccola selvaggina; il pesce comprende pesce azzurro e orate, molluschi e crostacei); e infine il dessert, le secundae mensae, in cui si può assaggiare frutta fresca e secca (mele, pere, fichi, castagne, mandorle). Con l'antipasto si beve soltanto mulsum, vino dolcificato con miele, mentre con le altre portate il vino (in genere conservato con l'aggiunta di resine e pece) è filtrato in un cratere e qui miscelato con acqua nella proporzione di uno a tre (una parte di vino su tre di acqua), aromatizzato con spezie e quindi versato nei calici dei convitati da servi muniti di brocche. Dopo il dessert, il banchetto può protrarsi, senza ulteriori portate, in amabili conversazioni sostenute da più generose bevute: è la comissatio, il momento in cui il convivio romano si avvicina di più al simposio greco. Per la cena ci si riunisce in un'apposita sala da pranzo, il triclinium, dove gli adulti, che indossano vesti più comode e leggere, mangiano distesi su letti inclinati a tre posti (da cui il locale prende nome): un tempo le matrone stavano sedute ai piedi dei mariti, ma nell'età imperiale prendono posto anch'esse accanto agli uomini mentre i ragazzi si accomodano sugli sgabelli davanti al letto dei genitori. In genere un triclinium ospita tre letti collocati su tre lati di una tavola centrale (mensa), con un un lato lasciato libero per il servizio: il posto d'onore (locus consularis) riservato all'ospite più importante è quello a sinistra sul letto centrale (imus in medio), mentre il padrone di casa prende posto alla destra dell'ospite (summus in imo), come puoi vedere rappresentato in uno schema cliccando qui. La cena, un rituale collettivo Cenare per i Romani non significa semplicemente nutrirsi, ma celebrare un rituale collettivo in cui si rafforzano i vincoli sociali: la cena è lo spazio per costruire relazioni al di là delle occasioni pubbliche e ufficiali; fin dall'antichità il cibo è un fatto culturale, e l'allestimento del banchetto una metafora per dire agli altri come siamo o come vorremmo essere. Catullo scrive uno scherzoso biglietto d'invito a cena all'amico Fabullo (il carme 13), lamentando la proverbiale povertà dei poeti e chiedendo quindi al convitato di portare lui tutto l'occorrente per una piacevole serata, dalle vivande alla flautista, al necessario buon umore (in cambio Fabullo avrà in dono un profumo così irresistibile che vorrà diventare tutto naso): ciò che più conta non sono cibo e vasellame, ma il clima di rilassata amicizia, che rende possibile violare l'etichetta, come il poeta ha appena fatto con il suo non convenzionale invito in versi, espressione della raffinata urbanità e della familiarità cordiale che contraddistingue la cerchia di amici. All'opposto, la cena di Trimalchione, il liberto arricchito protagonista del più lungo episodio del Satyricon giunto fino a noi, celebra il trionfo assoluto del cibo: sette portate invece delle tre canoniche; un carosello di piatti che alla straordinaria varietà e abbondanza unisce la maniacale presentazione dei cibi, disposti in veri e propri allestimenti scenici capaci di coinvolgere anche la servitù in performance teatrali; tecniche di manipolazione degli alimenti che alterano i sapori naturali rendendoli simili ad altro, allo scopo di stupire, ingannare, confondere i convitati. Un esempio. Gli ospiti sono ancora all'antipasto, quando viene portato in tavola un vassoio con una gallina in legno deposta su un vassoio coperto di paglia: «si accostano subito due schiavi, che in un concerto assordante prendono a frugare tra la paglia e tiratene fuori uova di pavone su uova, le dividono tra i convitati … Trimalchione volge il capo e “Amici – dice – uova di pavone ho fatto mettere sotto la gallina. Ma ho paura, per bacco, che ci sia già la famiglia!”» (Petronio, Sat. 33; trad. V. Ciaffi). I convitati rompono le uova rivestite di pastafrolla e per poco non gettano via tutto perché in effetti sembra che ci sia già il pulcino. Solo incoraggiati ad un esame più attento, scoprono che immerso nel tuorlo pepato c'è un beccafico bello grasso. I cibi e il loro allestimento mimano una realtà ingannevole, che non è ciò che appare, e lascia disorientati gli ospiti di Trimalchione. In particolare il gruppo dei giovani freschi di studi accompagnati dal maestro di retorica Agamennone, che rappresentano il mondo della cultura alla tavola del parvenu, si mostra senza difese contro la brutale aggressione del cibo, perfettamente orchestrata dal padrone di casa, tirannico regista della cena. La fuga con cui alla fine i nostri eroi riusciranno a sottrarsi alla tirannide sempre più opprimente del padrone di casa, è una capitolazione,  una dichiarazione di resa: la sconfitta di una cultura debole e squalificata, che non ha risorse per contrastare la supremazia della ricchezza, che nel cibo – accumulato, manipolato, sprecato – trova da sempre la sua rappresentazione icastica.
Per vedere la rivisitazione della Cena Trimalchionis nel Satyricon di Fellini, clicca qui
Di segno opposto la fuga degli intellettuali alla tavola del ricco Nasidieno nella satira 2,8 di Orazio, uno dei modelli letterari dell'episodio petroniano: qui, al riaccendersi del fuoco di fila dei cibi imbanditi (una gru divisa in porzioni e cosparsa di sale e farro, fegato di oca bianca, ingrassata con fichi succosi, spalle di lepre, tordi col petto arrostito alla fiamma e colombacci senza le cosce), «tutte ghiottonerie se il padrone di casa non fosse stato lì a illustrarne ragioni e proprietà», gli amici del poeta se ne vanno di soppiatto dal triclinio dell'ospite, prendendosi «questa vendetta, di non assaggiare niente, come se ci avesse alitato sopra Canidia, più micidiale dei serpenti africani». Il cibo come simbolo di ricchezza e potere Il cibo imbandito per affermare una superiorità fondata sulla ricchezza, che minaccia di fagocitare ogni altro valore, è un motivo denso di implicazioni nella società romana. Dopo l'età delle conquiste, Roma domina il Mediterraneo: un grande afflusso di merci provenienti da Oriente si riversa sui mercati della capitale e all'accresciuta disponibilità di beni di consumo corrisponde una notevole accelerazione nell'ellenizzazione dei costumi. Uno dei casi più eclatanti è quello del nobile Lucullo, che al ritorno dalla guerra mitridatica (68 a.C.) impiegò le ricchezze accumulate in Oriente per vivere nel fasto più sfrenato: «non solo con coperte tinte di porpora e coppe tempestate di pietre preziose, con balletti e recitazioni teatrali si rese invidiato dalla gente volgare, ma anche con imbandigioni di vivande d'ogni sorta e di pasticceria elaborata in modo sopraffino» (Plutarco, Vita di Lucullo 40). Non a caso ancora oggi un pranzo raffinato e sfarzoso è detto «luculliano». Lucullo aveva perfino dotato le sue ville di allevamenti ittici (ospitati in apposite piscinae) e di riserve di volatili, per assicurare un facile e continuo approvvigionamento delle sue cucine. Apicio, aristocratico dell'età di Tiberio, autore di un trattato di gastronomia in dieci libri (De re coquinaria, di cui ci resta un rifacimento del IV d.C.), è famoso per essersi letteralmente mangiato in banchetti un capitale di oltre cento milioni di sesterzi: oberato di debiti e con un patrimonio residuo di diecimila sesterzi, preferì darsi la morte piuttosto che vivere “in povertà”.
Le prelibatezze di mare che il padrone di casa usava imbandire ai convitati sono il motivo decorativo del mosaico che adornava il triclinio della Casa del fauno a Pompei: per vederlo, clicca qui
Le proteste dei moralisti Il lusso a tavola diventa un facile bersaglio dei moralisti, mentre si moltiplicano senza grande effetto le leggi suntuarie, a partire da una prima Lex Orchia del 181 a.C. che poneva un limite al numero di convitati per banchetto e un tetto massimo all'acquisto annuo di carne e pesce. Cesare arrivò a disporre guardie attorno al mercato con l'ordine di sequestrare i beni proibiti, e persino a far confiscare sulle mense già imbandite le merci che erano sfuggite alla vigilanza delle guardie (cfr. Suetonio, Iul. 43). Nelle tirate dei moralisti, la tavola imbandita di cibi provenienti da tutto il mondo diventa un simbolo dell'imperialismo romano. Così Seneca: «sono a portata di mano gli alimenti che la natura ha disseminato in ogni luogo; ma passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni, varcano i mari e pur potendo calmare la fame con quattro soldi la stuzzicano a peso d'oro … Aumentate pure le vostre entrate, ampliate i vostri domini, non riuscirete mai a dilatare il vostro corpo. Quando vi sarà andato bene un affare, quando le campagne militari vi avranno reso molto, quando avrete ammassato cibo da ogni parte, vi mancherà spazio per le vostre provviste» (Cons. ad Helv. 10,5-6; trad. A. Traina). Accecati dalla fame di ricchezze, ebbri di un dominio che si estende fino ai confini del mondo, i Romani divorano più di quanto riescano a contenere: vomunt ut edant, edunt ut vomant, «mangiano per vomitare, vomitano per mangiare» (ib. 10,3). È il cliché della sfrenata ghiottoneria dei Romani, rimasto impresso nell'immaginario collettivo fino ai nostri giorni. Ma erano davvero così insaziabili e corrotti i Romani a tavola? Gli esempi di Marziale, di Catullo, degli amici di Orazio al banchetto di Nasidieno ci dicono altro. Il motivo del lusso alimentare si innesta nella tradizionale difesa del mos maiorum, il sistema di valori della Roma arcaica (certo già idealizzato nell'età repubblicana), contro la penetrazione di costumi più rilassati dall'Oriente. Alla base della dieta tradizionale romana c'è la puls, una farinata di farro (Plauto definisce scherzosamente i Romani pultiphagonides, «mangiatori di polenta»): ai cereali si aggiungono verdure dell'orto, uova, formaggi, carne e pesce (questi ultimi in modica quantità). È il modello alimentare adottato dall'oraziano Ofellus, un contadino di Venosa di antico buon senso, che si vanta di non aver mai mangiato «in un giorno di lavoro, altro che non fosse legumi e cima di prosciutto. E se un ospite … era venuto a trovarmi … ce la passavamo bene non con i pesci che si vanno a comprare in città, ma con un pollo e un capretto; e poi uva di quella appesa a seccare e noci e qualche piccia di fichi facevano bello il nostro dessert» (Orazio, sat. 2,2, 116-122; trad. M. Labate). Un invito alla sobrietà alimentare. Persino in tempi di grande abbondanza. Crediti immagini: Apertura: "Triclinio" di ANA BELÉN CANTERO PAZ su flickr Link Box: Lawrence Alma-Tadema, "Le rose di Eliogabalo". Olio su tela, 1888. Link
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