Le parole latine per designare il denaro
La parola denaro deriva dal latino denarium, moneta d’argento del valore originario di 10 assi, ma per indicare la ricchezza in moneta si ricorreva anche alla metonimia argentum, in cui il prezioso metallo sostituiva nella lingua d’uso il suo prodotto di conio, oppure a pecunia, che nella sua etimologia (radice di pecus) conserva l’antico richiamo alla ricchezza come numero di capi di bestiame posseduti. Più che per la parola denaro, la lingua latina presenta una varietà complessa di termini per indicare la ricchezza: a divitiae si affianca opes o copia, per l’abbondanza dei mezzi a disposizione e, di conseguenza, per il potere acquisito; accanto a ubertas, che corrisponde alla generosità del suolo coltivato, si trovano i termini facultates, per i beni di fortuna, e magnificentia, per il lusso che si traduce in sontuosa grandezza.Niente di superfluo
Il greco ricorre invece prevalentemente a un unico termine, chrémata (dalla radice del verbo chraomai) per indicare ciò di cui si ha bisogno. Niente di superfluo, dunque, almeno alla lettera: ricco è colui che dispone di ciò di cui necessita. Il mondo antico, sia greco sia romano, prende spesso le distanze dall’idea di ricchezza come accomulazione e lusso. I beni materiali, e il denaro tra questi, vengono apprezzati solo se accompagnati dalla misura. “Niente di troppo”, recita la saggezza oracolare di Delfi. Il valore della ricchezza non è intrinseco, ma coincide con la sua capacità di soddisfare i bisogni materiali. Risulta infatti ampiamente attestato, soprattutto nella commedia, il topos della ricchezza che rende schiavi: da Cratino ad Aristofane, da Plauto a Terenzio, la contrapposizione tra dives e pauper, ricco e povero, si è colorita di toni sarcastici e pungenti. Il vecchio Euclione, nell’Aulularia plautina, è ossessionato dalla paura di essere derubato e venera la sua pentola zeppa d’oro come una suprema divinità; d’altra parte il dio della ricchezza, il Pluto dei dialoghi di Aristofane e Luciano, va trattato con rispetto, ricordando che viene offeso da qualsiasi eccesso gli sia riservato, sia esso avidità o spreco.Felicità e ricchezza
Non è un caso, forse, che la riflessione sul lusso si esprima attraverso due grandi questioni: il rapporto della ricchezza con la felicità e quello con la libertà. Nelle Storie di Erodoto ci viene narrato un episodio paradigmatico da questo punto di vista: l’incontro tra il greco Solone e il re di Lidia Creso, per tradizione considerato l’inventore della moneta. Solone è tramandato come uno dei Sette Sapienti: legislatore moderato, fautore di una costituzione timocratica e dell’abolizione della schiavità per debiti, viaggiò una decina d’anni per conoscere il mondo, sempre affamato di nuove scoperte e nuovi incontri. Creso, all’apice della sua potenza, attende il greco che ha fama di somma sapienza per porgli la domanda cruciale: “Chi è l’uomo più felice sulla terra?”, sicuro che Solone avrebbe indicato Creso stesso. Ma il saggio, in tutta risposta, conta i giorni che formano in media la vita umana, 26250: sono troppi, e troppo variabili, perché si possa definire felice qualcuno prima che questi giunga alla fine del suo lungo cammino. Per il re di Lidia la felicità coincide con l’accumulo di denaro, per il greco Solone con la protezione degli dei, la benevolenza del destino: felice è colui che conclude serenamente la propria esistenza. Dietro la narrazione di questo episodio c’è il tentativo, da parte di Erodoto, di spiegare l’origine della lunga guerra tra Greci e Persiani, ma – ancora di più – di mostrare le antiche ragioni di una diversa concezione etica e filosofica della vita e del suo bene. Le parole di Solone saranno talmente profetiche che, di lì poco, Creso ne sperimenterà la verità terribile: l’improvvisa morte del figlio Alys renderà ben poca cosa il conforto delle proprie ricchezze.Libertà di pensiero e ricchezza
Sono tanti i maestri di sapienza, gli artisti e i poeti che nell’antichità hanno scelto di vivere non per brama di ricchezza, ma per coltivare la cura del pensiero e della bellezza. Il denaro, in questi casi, è sentito come semplice strumento per garantire un sostentamento che renda liberi dalle incombenze quotidiane. Tuttavia, nel corso del tempo il rapporto con i mecenati dell’antichità, con i potenti illuminati del Rinascimento e, infine, con i raffinati committenti di oggi, ha rappresentato non solo una risorsa, affrancando l’artista dall’oneroso obbligo di mantenersi, ma anche una pericolosa minaccia alla propria autonomia di pensiero: lo testimonia il poeta Orazio, chiuso nel piccolo podere in Sabina donatogli da Mecenate, ma che si dice pronto a restituire ogni beneficio ricevuto se questo fosse l’unico modo per restare libero. Ce lo racconta, a distanza di secoli, anche Ludovico Ariosto, nel difficile, altalenante rapporto con il suo protettore, il cardinale Ippolito d’Este. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi.L'esempio di Socrate
Il più radicale di tutti, nella sua relazione con le ricchezze e il potere, è Socrate, che si distacca con forza dal modello sofistico di una sapienza a pagamento. Antifonte lo rimprovera per la sua vita quasi da schiavo, dentro un mantello logoro e con un misero pasto come nutrimento. Ancora una prova evidente di come, per molti, ricchezza e felicità coincidano o procedano insieme. Socrate, che non indossa tunica né d’estate né d’inverno, che cammina scalzo come un bambino, difende invece la propria libertà interiore: felice non è chi vive nel lusso, ma chi non ha bisogno di nulla, o del meno possibile. Nella mutua amicizia è per lui il vero guadagno, nel dialogo condiviso alla ricerca della verità. E Socrate, processato come corruttore della gioventù, come sovvertitore dell’ordine costituito, affida ai suoi giudici il messaggio più rivoluzionario di sempre: “La virtù non nasce dalle ricchezze, ma dalla virtù nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, sia in privato sia in pubblico”. Crediti immagini: Apertura: monete antiche, foto di Gunthram (Wikimedia Commons) Box: busto di Socrate (Wikipedia)
