Aula di Lettere

Aula di Lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Italiano

Tre forme di governo e tre modi di raccontarle

Post comunismo, neo fascismo e democrazia: Andrea Tarabbia approfondisce questi tre diversi contesti politici nella letteratura, portando gli esempi di autori come Svetlana Aleksievič; Vasilīs Vasilikos; Antonio Fogazzaro e Paolo Volponi.

leggi

(Post)Comunismo

«Ho tre case: la Bielorussia, che è la terra dove è nato mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la terra dove è nata mia madre e dove sono nata; e la grande cultura della Russia, senza la quale non so immaginarmi». Sono parole che Svetlana Aleksievič pronunciò a Stoccolma, alla fine del discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura del 2015, che l’Accademia di Svezia le aveva assegnato «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo». Nata nel 1948, Aleksievič ha scritto in fondo pochi libri, ma ciascuno di essi è legato indissolubilmente a un fatto e un tema chiave della seconda metà del Novecento e alla storia del suo Paese e di quel pezzo di Europa che, fino al 1989, è stato “dall’altra parte del Muro” e ha rappresentato l’altra faccia della Guerra fredda – il mondo socialista, l’est europeo e in particolare la Russia; infine, ogni libro che Aleksievič ha scritto ha a che vedere con alcune categorie di persone meno rappresentate e tutelate (come le donne) e con un’idea radicale, umanista di ricerca della verità attraverso la letteratura: «Quando cammino per strada e capto parole, frasi ed esclamazioni, penso sempre a quanti siano i romanzi che vanno perduti senza lasciare traccia. Scompaiono nell’oscurità. Non siamo stati capaci di catturare in letteratura l’aspetto conversazionale della vita umana». È questo che prova a fare Aleksievič: crea “romanzi di voci”, come li chiama, architetture complesse e polifoniche in cui, di fatto, raccoglie voci vere di testimoni di grandi fatti della Storia, dà loro una forma e le assembla. Non c’è invenzione, nei suoi libri: ci sono storie di tutti i giorni, sentimenti, pensieri, desideri di persone che si sono trovate ad affrontare la guerra, o hanno vissuto sulla propria pelle il disastro nucleare di Černobyl’, e ora hanno l’occasione di raccontarlo all’autrice; lei, da parte sua, si impegna a trascrivere con fedeltà ciò che le viene confidato: storie a volte piccole, che raccontano una vita quotidiana vissuta al cospetto o malgrado grandi eventi tragici. L’idea è potente, e viene da Tolstoj: la Storia la fa la gente comune, ed è giusto che sia la gente comune a raccontarla.

La concezione della storia secondo Tolstoj: https://www.youtube.com/watch?v=Jp6dyQipD3o

Ma, se si limitasse a far questo, vale a dire a recarsi a casa dei testimoni con un registratore e una penna, Aleksevič non sarebbe la grande scrittrice che è, ma solo un’ottima reporter. Invece ciò che fa ha a che vedere con la letteratura, con un’idea forte di mondo. Qual è il suo contributo, dunque? Che cosa la rende una grande autrice? Molte cose, due delle quali fondamentali: anzitutto, l’idea che la letteratura debba e possa essere una forma di testimonianza e di ricerca della verità sulle cose del mondo, ma che queste testimonianze e questa indagine sulla verità non siano frutto di un lavoro d’archivio come fanno gli storici, ma di ricerche sul campo, di contatti umani cercati e perseguiti. A ciò si collega un’idea estetica semplice e potente, che dice che «bisogna restituire la realtà così come essa è», vale a dire senza abbellimenti: Aleksevič, per questo, nei suoi libri riproduce nel modo più fedele possibile il parlato, i modi di dire e di porsi delle persone a cui dà voce, nella convinzione che nelle scelte lessicali, nelle pause, perfino negli errori e nei ripensamenti risieda almeno una piccola parte di quella verità che va cercando con la letteratura.

Prima di scrivere ogni suo libro, Aleksevič si trova di fronte a uno sterminato archivio di registrazioni e appunti da cui emergono centinaia di voci, a volte in disaccordo tra loro, ma che devono tutte trovare spazio nella narrazione, perché solo così si può restituire ai lettori quel pezzo di mondo e di Storia che si vuole ricostruire. Allora, il lavoro “d’autore” sta nell’organizzazione di questi materiali, nel decidere quando e dove dare voce a un intervistato o a un altro, e quanto spazio lasciargli perché possa raccontare la sua storia con efficacia.

Uno dei suoi libri più importanti, e più recenti, si intitola Tempo di seconda mano ed è stato pubblicato nel 2013: è un enorme lavoro che racconta la vita quotidiana in Russia in seguito al crollo del comunismo. Raccoglie voci ascoltate e trascritte tra il 1991 – l’anno della fine dell’Unione sovietica – e il 2012: sono quasi vent’anni di ricerche, condensate in oltre 700 pagine di voci monologanti che Aleksevič ha pazientemente ricostruito suddividendole in due grandi parti: la prima, L’apocalisse come consolazione, racconta il decennio successivo al crollo, ossia gli anni Novanta; la seconda, Il fascino del vuoto, racconta gli anni Duemila. Il volume raccoglie «Voci di strada e conversazioni in cucina», che l’autrice ha captato, e che dicono storie piccole, a volte anonime, di “vita vissuta” al cospetto della fine del mondo socialista; poi, in entrambe le parti compaiono Dieci storie, stavolta grandi e articolate, firmate da testimoni, a volte vittime a volte carnefici, in ogni caso sempre protagonisti minori di quel grande sogno, poi mutatosi in dramma, che è stato l’Unione sovietica. Così, senza intervenire mai personalmente con la propria opinione, Aleksevič riesce comunque a comunicare a chi legge la grande portata del dolore e la fatica di vivere che chi ha vissuto a lungo sotto una dittatura si porta addosso; allo stesso tempo, riesce a gettare una luce sui tempi incerti e corrotti che hanno fatto seguito al crollo del comunismo, e sullo spaesamento di un popolo intero che, dall’oggi al domani, ha visto tutto ciò che conosceva venire meno e ha dovuto immaginare come reinventarsi.

La voce di Svetlana Aleksievič, in un’intervista che, partendo dall’invasione dell’ucraina, parla di russia, europa e democrazia: https://www.valigiablu.it/svetlana-aleksievic-guerra-ucraina-russia/

(Neo)Fascismo

È un libro del 1966, scritto dal grande scrittore greco Vasilīs Vasilikos: si chiama Z ma, nell’edizione italiana, ha un sottotitolo, L’orgia del potere, mutuato dal film che, nel 1969, il grande regista Costa-Gravas trasse da questo romanzo che sta a metà tra l’opera d’invenzione, il romanzo civile e l’atto d’accusa. Si racconta una storia tutto sommato semplice: nel maggio del 1963, il deputato di sinistra Grigoris Lambrakis, pacifista, viene ucciso a Salonicco da un militante fascista; le indagini rivelano che i mandanti dell’omicidio appartengono a movimenti di estrema destra, tra cui alcuni pezzi grossi della polizia e dell’esercito, appoggiati dal partito di destra al governo, l’ERE, che è democraticamente eletto ma che, grazie alla maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento, agisce quasi senza contraddittorio e perseguita i rivali politici. Sono anni complessi per la Grecia, che sfoceranno nel 1967 nell’instaurazione della cosiddetta Dittatura dei colonnelli, un regime fascista che andrà avanti fino alla metà degli anni Settanta e che sarà colpevole di crimini perfino peggiori del delitto Lambrakis. La morte del deputato, però, è considerata quasi un atto di nascita della dittatura militare, e il suo caso è tuttora paragonabile, per l’impatto che ha avuto sull’immaginario collettivo, al delitto Matteotti, anche perché l’esecutore e i mandanti dell’omicidio, processati, subirono condanne lievi e, dopo il 1967, furono amnistiati.

Ebbene, Vasilikos, l’anno prima del colpo di Stato, in un clima politico che era ovviamente già più che favorevole alla dittatura, scrisse Z, che è di fatto una ricostruzione romanzata di questi fatti e di questo clima, scritta col piglio della spy story. Questo suo atto di coraggio lo costringerà all’esilio, che Vasilikos trascorrerà in gran parte in Italia. Nel 1969, come dicevamo, il regista greco Costa-Gravas (altro esiliato: in Francia stavolta) ne trasse un film, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero e del Premio della giuria a Cannes, il cui lancio recita: «Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive, non è casuale. È volontaria»È un thriller pieno di ritmo, di suspense, ma con un finale nero e disperato nonostante, in coda, ci sia una piccola nota di speranza: il Potere vince sempre, insabbia la verità, fa i propri interessi e se ne frega dei cittadini e dei diritti – questo è il messaggio; anche se, e qui sta la nota di speranza, prima o poi la verità salta fuori, anche grazie alle opere d’arte, come i libri o i film.

Democrazia

Nel 1946 l’Italia diventava finalmente una Repubblica e, dopo un anno, usciva quello che può essere definito il primo “romanzo parlamentare” della storia repubblicana. E il titolo è tutto un programma: I moribondi di Montecitorio, scritto da Vittorio Gorresio. È un’opera in verità piuttosto mediocre, presentata dall’editore Longanesi come «Il primo libro che tiri le somme dopo un anno di repubblica. (...) Un libro curioso e pettegolo» e che fin dal titolo riprende un vecchio romanzo del 1862, I moribondi di Palazzo Carignano – e qui c’è una coincidenza piuttosto curiosa. Il libro del 1862, pubblicato un anno dopo l’Unità d’Italia così come il libro di Gorresio è pubblicato un anno dopo la Repubblica, fu scritto dal giornalista Ferdinando Petruccelli della Gattina, deputato del Regno d’Italia nelle fila della Sinistra storica, che di fatto inventò il genere – non troppo frequentato – del “romanzo parlamentare”, vale a dire del romanzo ambientato tra gli scranni delle camere. Fin dal titolo, questo Moribondi di Palazzo Carignano era una satira, però sconsolata, dei comportamenti sciatti e irresponsabili dei parlamentari del Regno, tradizione seguita e rinverdita ottant’anni più tardi da Gorresio; la sciatteria, la brama di potere, i traffici sottobanco e l’ignoranza sono un filo conduttore del genere parlamentare: pensate a un altro libro giustamente dimenticato (è brutto), Le ostriche di Carlo del Balzo, esponente del naturalismo italiano e deputato del Regno a cavallo del 1900. Ebbene Le ostriche, pubblicato nel 1901, è uno dei primi romanzi sul clientelismo, e queste “ostriche” del titolo non sono nient’altro che gli onorevoli, attaccati come molluschi allo «scoglio di Montecitorio».

Ci sono, ovviamente, esempi più nobili. Nel Daniele Cortis (1881), Antonio Fogazzaro scrive il ritratto di un idealista cristiano, il Daniele del titolo, che mira a creare un movimento politico che porti in Parlamento delle figure moralmente rette e intellettualmente solide, in quella che è una sorta di utopia cattolica destinata al fallimento. Ma il sogno di Cortis non è democratico: è una monarchia illuminata. Anche L’imperio (1929), libro incompiuto di De Roberto, l’autore di I Viceré, è un romanzo parlamentare: racconta la vicenda di don Consalvo Uzeda di Francalanza, già protagonista, appunto, dei Viceré, che diventa deputato, si trasferisce a Roma, briga, disfa, rifà, corrompe e infine diventa perfino Ministro in quello che è un libro che, di nuovo, racconta la vita parlamentare come un groviglio di sotterfugi e personalismi. Romanzo sofferto di una vita, L’imperio è stato scritto, abbandonato, ripreso durante 25 anni in cui De Roberto, per provare a capire profondamente i meccanismi del potere, si trasferì perfino a Roma, dove fece ricerche che furono interrotte dalla sua morte, avvenuta nel 1927.

Infine Volponi e Stajano. Grandi scrittori eletti in Parlamento, che vollero scrivere della loro esperienza. Stajano lo fece nel 1997, ma non in un romanzo, in una sorta di diario pubblico che è il resoconto della sua esperienza in Senato negli anni 1994-1996: il libro si chiama Promemoria e racconta momenti e personaggi emblematici della Seconda repubblica – l’insediamento di Berlusconi e della sua corte, i grandi vecchi della politica (Andreotti, Spadolini), abili amministratori del potere, e una miriade di piccoli e grandi episodi di vita realmente vissuta da un uomo che si definisce «Uno straniero in patria tra Campo de’ Fiori e Palazzo Madama».

Paolo Volponi, invece, è uno dei più grandi scrittori della seconda metà del Novecento italiano. Fu senatore indipendente, ma vicino al PCI, tra il 1983 e il 1993. Progettò un romanzo epistolare, rimasto però allo stato di abbozzo, sul Senato: si chiama Il senatore segreto – una parodia incentrata, appunto, su certe misteriose apparizioni di un “senatore segreto” che, fin dai tempi della monarchia infesta come uno spettro i palazzi del potere romano, influenzando in modo occulto l’andamento della politica italiana e promuovendo sempre e inesorabilmente il trasformismo e la corruzione.

Paolo Volponi, il senatore segreto e la vita parlamentare, in un ritratto scritto da Corrado Stajano: https://www.corriere.it/cultura/11_dicembre_28/stajano-volponi_d06a933c-314f-11e1-b43c-7e9ccdb19a32.shtml

Crediti immagine: Svjatlana Aleksievič (Wikimedia Commons)

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento