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Lettere classiche

Il futuro è alle nostre spalle, e giunge da lontano

Se il tempo in sé è un enigma, ancora più inestricabile è per noi l’enigma del futuro. Nelle lingue antiche l’espressione del concetto di futuro è complessa: Roberta Ioli ne offre un’analisi sia per il latino che per il greco.

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«Se nessuno mi chiede cos’è il tempo, lo so, ma se voglio spiegarlo a chi mi interroga, non lo so più». Così scrive Agostino, che al mistero del tempo ha dedicato pagine folgoranti nel libro XI delle Confessioni. Per Agostino il tempo è nel mondo e con il mondo: la sua essenza è psichica, dunque interamente soggettiva. Il tempo è mutamento e movimento e, in quanto distensio animi, esso può venir misurato solo all’interno della coscienza. Il passato è un non più, il futuro un non ancora, e il presente sembra assottigliarsi fino a coincidere con la linea divisoria che separa queste due forme di «non essere». Ma se il presente è solo nell’istante, esso risulterà inafferrabile, inesteso, senza durata. Dunque, perché lo percepiamo lento o veloce, con trepidazione o paura?

Se il tempo in sé è un enigma, ancora più inestricabile è per noi l’enigma del futuro.
Tre sono le espressioni con cui il mondo latino allude al futuro. La prima è futurum, derivato dal participio futuro del verbo «essere» per indicare «ciò che sta per accadere», «ciò che è destinato ad essere»; sorprendentemente il termine, che si origina dalla radice tematica fu- del tempo perfetto, sembra portare con sé la memoria del passato, quasi a ricordarci che ciò che sarà è legato, in un’inscindibile filiazione, a ciò che è stato. Le altre due perifrasi utilizzate per il futuro sono tempus reliquum (derivato dal verbo relinquo, «lasciare indietro», «restare»), cioè il «tempo che resta» (tempo che rimane da vivere, da immaginare, da amare), e, infine, tempus posterum, cioè il tempo che verrà «dopo» (post) ma che, letteralmente, sta «alle nostre spalle», secondo una metafora spaziale, per noi controintuitiva, che la lingua latina condivide con la greca.

Anche nel greco antico il futuro è espresso dalla sostantivazione del participio futuro del verbo «essere»: τἐσ(σ)όμενα corrisponde a «le cose che saranno», e si affianca, in forma sinonimica, alla perifrasi τμέλλοντα σεσθαι, «le cose che stanno per essere», o per accadere (espressione spesso sostituita dalla forma al singolare τὸ μέλλον). Τὰ ἐσσόμενα ricorre talvolta, in età arcaica, in congiunzione con il participio passato e presente del verbo «essere» per indicare l’estensione del tempo in tutto l’arco della sua durata. Così, per esempio, nel proemio della Teogonia Esiodo ci dice che le Muse conoscono e cantano «ciò che è, ciò che sarà e ciò che fu» (τά τ' ἐόντα τά τ' ἐσσόμενα πρό τ' ἐόντα, Th. 38), e un analogo potere, autoptico e ubiquo, è attribuito agli indovini (si pensi a Calcante, in Il. 1.70). L’indovino ha infatti ricevuto dagli dèi la capacità di vedere con gli occhi della mente, come nel caso del divino Teocliméno, che dice di sé di avere occhi, orecchi e mente salda (Od. 20.363-368), o nel caso del vecchio Tiresia, cieco nel corpo ma dotato della più acuta vista interiore. Il poeta, invece, che pure ha ricevuto dalle Muse il dono del canto e della memoria, è descritto da Esiodo come cantore delle «cose che saranno e di quelle che furono» (τά τ' ἐσσόμενα πρό τ' ἐόντα, Th. 32), cioè degli eventi del futuro e del passato. Scomparso è il riferimento al presente. Possiamo forse ipotizzare che nella pratica aedica sia possibile ricordare ciò che è accaduto, perpetuando la narrazione del passato, e anticipare il futuro, se gli dèi faranno dono di questa preveggenza, ma il presente non può essere l’oggetto del canto. Esso può essere solo vissuto con una piena adesione alla sua istantaneità. Il presente è una soglia impercettibile tra due dimensioni di durata e, come tale, viene consumato in un istante.

Gli eroi dell’epos sembrano bruciare nel fuoco dell’istante, soprattutto i guerrieri dell’Iliade, impegnati in quella scelta radicale dell’attimo presente a cui è destinato chi convive con la prossimità della morte. Primo fra tutti è Achille, eroe del presente impetuoso. Eppure, proprio Achille è associato da Omero alla caratteristica del tempo cantato dall’aedo, in cui viene esclusa l’allusione al presente. Contrapponendosi ad Agamennone, incapace di collegare in un nesso causale passato e futuro, Achille rivendica implicitamente a sé questa capacità razionale, descritta come la facoltà di usare il νόος in relazione a πρόσσω καὶ ὀπίσσω, ovvero agli eventi che stanno davanti e dietro e alla loro interconnessione (Il. 1.343). Si tratta di due avverbi spaziali che, come ci suggerisce Eustazio nel suo commento, introducono un riferimento temporale espresso in una forma apparentemente controintuitiva: il futuro è infatti indicato da ὀπίσσω («dietro, alle spalle»), il passato da πρόσσω («di fronte»). Achille mostra una caratteristica per lo più attribuita agli anziani (i riferimenti di Eustazio sono al vecchio Priamo, al saggio Polidamante, all’eroe Aliterse): ricorda cioè quegli animali che, capaci di ruotare il collo, possono guardare ciò che hanno davanti e, insieme, ciò che è alle loro spalle.

Il futuro – sembra allora di poter suggerire – non è alle spalle del soggetto, ma è (nascosto) dietro il passato. Passato e futuro sono tali in riferimento l’uno all’altro, sono cioè uno dietro l’altro o uno di fronte all’altro. Come scrive Pindaro in un verso di vertiginosa potenza, «il futuro giunge da lontano» (ἕκαθεν γὰρ ἐπελθὼν μέλλων χρόνος (Pindaro, Ol. X 7), portando con sé, dopo un lungo viaggio, la traccia incancellabile della sua storia. Se solo abbandoniamo il punto di vista soggettivo, interno al tempo, se proviamo a pensarci attraversati dal tempo e dal suo mistero, il futuro si mostrerà come l’incognita che non riusciamo ancora a scorgere, l’angolo in ombra che gli accadimenti del passato non hanno ancora portato in piena luce.

Achille rappresenta l’osservatore che, dall’esterno, abbraccia con lo sguardo tutte le dimensioni del reale. Libero dal vincolo del presente, può osservare il succedersi degli eventi nel loro percorso e nel loro ordine relativo. Non dimentichiamo che Odisseo, disceso nell’Ade, ricorda proprio questa peculiare collocazione di Achille anche da morto, una collocazione associabile a quella di nessun altro e descritta attraverso i medesimi avverbi spazio-temporali incontrati nell’Iliade. Nessuno è come te, gli dice Odisseo: «nessun eroe, né prima (προπάροιθε) né poi (ὀπίσσω), è più felice» (Od. 11.483). Sarà però subito smentito dall’ombra di Achille, per il quale la felicità è in un altro tempo: nel fugace e istantaneo balenio del presente, perduto per sempre.


(Crediti immagine: Minerva trattiene Achille dall'uccidere Agamennone, Giambattista Tiepolo, 1757 Wikimedia Commons)

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