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Cinema e voto

Totò nei panni di Antonio La Trippa che urla al megafono "Vota Antonio!" è forse l'icona italiana per eccellenza del legame fra cinema e voto. Ce ne parla Luigi Paini, che propone una rassegna di titoli italiani e internazionali sui film che raccontano il votare

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Autunno di appuntamenti elettorali. Il voto presidenziale negli Stati Uniti, il referendum costituzionale in Italia. Dal primo dipendono buona parte dei destini del mondo; dal secondo, più modestamente, possono derivare mutamenti profondi nell’architettura istituzionale del nostro Paese, con ricadute politiche importanti anche a breve termine. Recarsi a votare, si dice, non è più “di moda”, eppure bastano queste due scadenze per dimostrare come il giudizio popolare sia sempre fondamentale. Lo è per garantire il corretto funzionamento della democrazia, ma lo è anche in circostanze più particolari, legate alla vita quotidiana. Una banale assemblea di condominio, un’elezione scolastica, una giuria popolare. Tutti momenti che formano il tessuto della convivenza civile. Tutti momenti che il cinema, in versione sia “seria” sia “leggera”, ha continuamente affrontato nella sua storia.  

Sesso & potere, di Barry Levinson (Usa 1997)

Oh che bella guerra! Le elezioni per la Casa Bianca sono ormai vicinissime, quando il presidente in carica (e di nuovo candidato) viene investito da un gravissimo scandalo: una giovane donna lo accusa di molestie sessuali (ogni riferimento alle vicende di Bill Clinton, vista la data di realizzazione del film, è puramente voluto). Panico tra i sostenitori del Number One: i sondaggi sono in caduta libera, la rielezione sembra irrimediabilmente compromessa. A meno che…  A meno che non ci si inventi, appunto, una bella guerricciola in qualche parte del mondo, giusto per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Detto, fatto. Una cellula di terroristi starebbe per attaccare gli Usa dal vicino Canada. La loro nazionalità, così almeno si fa credere, è albanese. Ergo, l’Albania (Paese la cui collocazione geografica è sconosciuta alla maggior parte dei cittadini americani) merita di essere punita. Ci si inventa tutto, ma proprio tutto. Immagini di repertorio per “coprire” mediaticamente battaglie che non si sono mai svolte, fotografie “vere” e commoventi create al computer, perfino un eroe di guerra da “medagliare” davanti alle telecamere. È la politica, bellezza!, e tutti i mezzi per sbaragliare gli avversari sono leciti. Ai tempi in cui il film è stato prodotto più che politica sembrava fantapolitica: visti i colpi bassi che hanno caratterizzato a tutti i livelli l’acerrima sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump, pare proprio che la satira feroce degli autori abbia colpito anticipatamente nel segno…

   

Mr Smith va a Washington, di Frank Capra (Usa 1939)

Dietro le quinte della democrazia americana. Anzi, della democrazia tout court. Grande cinema della Hollywood dei tempi di platino, grandissimo, inarrivabile Capra. Un cittadino qualunque, uno di noi, viene scelto da un comitato politico-affaristico per rimpiazzare un senatore a Washington. Rappresenterà il suo Stato pur senza avere nessuna esperienza: in questo modo, tramano coloro che lo hanno scelto, potrà essere manovrato come una marionetta, permettendo senza battere ciglio i loro loschi affari. Il film è davvero una lezione di democrazia. Vediamo in azione i meccanismi del Congresso americano, l’azione potente delle lobby, la funzione (sia negativa che negativa) della stampa. Mr Smith (ovviamente anche il nome lo identifica come “uno di noi”) è un uomo ingenuo, certamente, ma anche radicalmente puro. Crede nelle parole dei Padri fondatori, crede nella Costituzione degli Stati Uniti, conosce a memoria i discorsi di Jefferson e Lincoln. Dapprima viene travolto dai meccanismi infernali di Washington: i giornalisti lo sbeffeggiano, i suo “datori di lavoro” lo mettono all’angolo, la gente gli volta le spalle. Ma lui non cede. Quando sta per soccombere, gli viene in aiuto la sua competentissima segretaria che, dopo averlo in un primo momento detestato, ha scoperto il suo valore. Assistiamo così a uno dei momenti più celebri del cinema hollywoodiano: il lunghissimo, estenuante discorso di Mr. Smith davanti ai suoi colleghi, per convincerli della bontà della sua causa e della necessità di smascherare i nemici delle sacre istituzioni. Da vedere e poi rivedere, analizzandone sia la struttura drammaturgica (assolutamente classica) sia lo sguardo limpido sui meccanismi della democrazia “come dovrebbe essere”, in America e in ogni parte del mondo.

Gli onorevoli, di Sergio Corbucci (Italia 1963)

Vota Antonio. Vota Antonio. Vota Antonio.  È il “tormentone”  di Antonio La Trippa, candidato alla Camera per il Partito Nazionale per la Restaurazione nel Comune di Roccasecca, interpretato con la consueta vis comica da Totò. Siamo nell’Italia dei primi anni 60. Anni di convulsi cambiamenti economici, sociali, politici. L’arrivo del Partito socialista al governo, le massicce migrazioni interne, i consumi di massa, la nuova morale. Ma, immobile come un monolite, non sembra cambiare l’italica avversione per le regole. Più di mezzo secolo sono passati dalla realizzazione del film, e molti degli strali satirici ci paiono di strettissima attualità. L’immoralità pubblica, il nepotismo, i vizi privati e le (presunte) pubbliche virtù accompagnano tutti i personaggi. Che si muovono in una struttura a “episodi intrecciati”, sullo sfondo delle imminenti elezioni politiche. Democristiani, liberali, comunisti, missini e, nel caso di Totò, un alquanto improbabile “restauratore”. Eppure, proprio l’”uomo qualunque” Totò, pur con i suoi comportamenti farseschi (o forse proprio grazie a questi) rappresenta l’unica ancora di salvezza in un universo malato, senza futuro. Tocca al suo povero e buffo Antonio La Trippa avere il coraggio di dire no, di rivelarsi un Mr Smith “de noantri”, mandando all’aria il piano dei burattinai che, come nel film di Capra, intendono sfruttare la sua popolarità per accaparrarsi soldi e potere. Una farsa, nient’altro che una farsa, tenuta in piedi quasi esclusivamente dall’irraggiungibile Totò. Ma una farsa che, letta in filigrana, ci racconta moltissimo su corsi e ricorsi della storia politica del nostro Paese.

La parola ai giurati, di Sidney Lumet (Usa 1957)

Undici contro uno. Una giuria popolare è chiamata ad esprimersi sulla colpevolezza di un ragazzo accusato di avere ucciso il padre. E in undici, appunto, sono convinti che sia stato davvero lui. Prove schiaccianti, alibi incerto, contraddizioni nella testimonianza. Però serve l’unanimità: essendo prevista la pena di morte, tutti si devono esprimere allo stesso modo, “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Solo il giurato numero 8, sfidando la contrarietà astiosa di tutti gli altri, vota contro. E se il ragazzo fosse innocente? E se le prove portate dal procuratore non fossero così decisive? E se ancora le testimonianze fossero in parte viziate, condizionate dall’atmosfera emotiva che si è creata dentro e fuori dal tribunale nei riguarda di un delitto così efferato? È dura mantenere la barra dritta quando si è uno solo contro tutti gli altri. Si deve avere il coraggio di ascoltare solo la propria coscienza, ben sapendo di non possedere la verità. C’è solo il dubbio,  che si stia per commettere un irreparabile errore giudiziario. Praticamente tutto il film (a parte pochissime sequenze all’inizio e alla fine) si svolge in una stanza, quella in cui sono “rinchiusi” i giurati. Si tratta dunque di una sorta di “dramma da camera”, in cui contano i dialoghi, le espressioni dei volti, i moti di fastidio di persone che sentono la pressione di una decisione che si rivela molto più difficile del previsto. Perché il giurato n.8 (interpretato da un volto iconico del miglior cinema americano, Henry Fonda) non solo non molla, ma riesce a portare dalla sua diversi altri giurati. Votare non è dunque soltanto un’operazione richiesta dalla politica. Può anche essere una scelta della vita di tutti i giorni, una scelta dalla quale possono derivare conseguenze enormi (la vita o la morte di una persona). La coscienza, la dirittura morale, la ricerca della verità, ci dice Lumet, sono in questi casi la sola via da seguire.

   

Due giorni, una notte, di Jean-Pierre e Luca Dardenne (Belgio 2014)

Ancora una scelta che nulla ha a che fare con la politica, ancora una votazione legata alla vita privata. Non un tribunale, questa volta, ma un luogo di lavoro. Una giovane donna, Sandra, ha sofferto di depressione, con conseguenti problemi di rendimento nelle sue mansioni. Dunque dalla direzione viene proposto ai compagni di lasciarla a casa, in cambio di un “bonus” di 1.000 euro per ciascuno di loro. O sì o no, la scelta è secca. Se accettano, lavoreranno un po’ di più e si porteranno a casa quei soldi, sempre utili in tempi di crisi. Per quanto riguarda Sandra, sposata con due figli, saranno fatti suoi. Si vota, e si decide di lasciarla a casa. Ma lei non ci sta, chiede che si ripeta la votazione. Dal venerdì sera al lunedì mattina, quando i suoi compagni si pronunceranno di nuovo, ci sono appunto di mezzo i due giorni e la notte del titolo, il lasso di tempo che Sandra a disposizione per convincerli a non farla licenziare. Il cinema dei fratelli Dardenne privilegia da sempre temi sociali, situazioni esistenziali crude, atmosfere fredde e respingenti. In questo caso, però, la simpatia per la protagonista (interpretata da una grande diva, Marion Cotillard) è palpabile. Basterebbe poco, un piccolo sacrificio da parte di tutti per permetterle di continuare una vota dignitosa. Tuttavia, anche gli altri non sono affatto dei “mostri”: ognuno ha le sue ragioni, ognuno tenta di salvare situazioni precarie, in cui anche quei miseri 1.000 euro possono fare molto comodo. Alla fine si voterà, alla fine ciascuno sarà messo crudamente di fronte alla sua coscienza. E noi, noi come avremmo votato?

(Crediti immagini: Peter Zurek – Shutterstock)

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