Il genocidio degli ebrei operato in modo sistematico nella Germania nazista nei primi anni Quaranta del Novecento ha messo filosofe e filosofi del Secondo dopoguerra di fronte all’arduo e terribile compito di interrogarsi su come uno sterminio di tali dimensioni sia stato possibile.
Non si trattava solo di pensare all’impensabile in termini di quantità delle vite umane distrutte, ma soprattutto di indagare le specifiche e inedite modalità attraverso cui l’obiettivo dell’eliminazione del popolo ebraico era stato pensato e messo in atto.
Sono molteplici i nuclei filosofici che emergono già nell’immediato dopoguerra a partire dalla critica all’idea di Ragione che dall’Illuminismo in poi era ritenuta con orgoglio il tratto più profondamente tipico del pensiero occidentale. «Il Reale è razionale» sosteneva Hegel. Ma come si poteva accettare quanto accaduto come razionale? O forse, d’accordo con Adorno e Horkheimer ne La dialettica dell’Illuminismo (1947), era questo il vero volto della Ragione spinta alle sue estreme conseguenze? Parallelamente a queste riflessioni di carattere più metafisico e dialettico, si sviluppa una riflessione etico-morale, un dibattito che vede centrali gli intellettuali di origine tedesca, le cui biografie spesso si intrecciano tra loro e con le vicende della Germania di Hitler. Queste figure portano nel profondo della propria esistenza sia le ferite di vittime sopravvissute sia la consapevolezza di appartenere al paese e al popolo che si sono resi responsabili del genocidio.
Emblematica è la vicenda di Karl Jaspers (1883-1969), amico del filosofo Martin Heidegger, con cui interrompe i rapporti a causa dell’adesione di quest’ultimo al nazionalsocialismo, e maestro di Hannah Arendt, con cui intrattenne uno stretto scambio di idee che non sempre li vide allineati. Per aver sposato una donna ebrea, Jaspers vide progressivamente diminuire nella Germania nazista le proprie libertà, fino a quando fu costretto a lasciare l’insegnamento universitario. Gli venne imposto di divorziare o emigrare. Jaspers riuscì a evitare entrambe le alternative, ma visse da recluso nella sua Heidelberg fino alla fine della guerra, quando finalmente venne riabilitato come docente. E proprio nelle sue prime lezioni, raccolte nel volume dal titolo significativo La questione della colpa (1946), Jaspers sente sin da subito l’urgenza di indagare le responsabilità individuali e collettive dei tedeschi, individuando quattro tipologie di colpa: la colpa giuridica, che si riferisce alle azioni che non rispettano le leggi e possono essere provate in modo oggettivo; la colpa politica, che si imputa agli uomini di Stato ma che riguarda anche a chi appartiene a quello Stato in quanto ognuno ha una parte di responsabilità rispetto al modo in cui è governato; la colpa morale, che è individuale e giudicata dalla propria coscienza; e la colpa metafisica, che infrange il principio di solidarietà tra gli esseri umani ogni volta che si tollerano ingiustizie e malvagità inflitte ai propri simili senza fare nulla per evitarlo.
Un altro filosofo che si misura su questi temi è Hans Jonas (1903-1993). L’aspetto “sentimentale” lo ritroviamo anche nel testo di Jonas Il principio responsabilità, importante scritto del 1979, nel quale il filosofo tedesco esplora la natura dell’agire morale, interrogandosi sugli aspetti che la caratterizzano e la rendono praticabile. La tradizione kantiana ha messo in luce il lato oggettivo e razionale della legge morale che «prescrive come dovere ciò che il giudizio mostra degno di essere in sé», sottovalutando tuttavia il lato soggettivo, ovvero il sentimento, che è ciò che ci permette di sentirci coinvolti e responsabili, colmando lo scarto tra la conoscenza di ciò che è morale e la scelta di compierlo. Nell’addentrarsi nell’oscura analisi di cosa ha reso possibile a livello singolo e collettivo una simile mostruosità, diventa così centrale il tema dell’empatia, della capacità umana di mettersi nei panni dell’altro, di comprenderlo ancora prima di qualsiasi giudizio.
Si tratta allora di individuare le forze che conducono l’essere umano a rinunciare all’empatia. I tanti studi che si sono susseguiti nel Novecento individuano alcuni nuclei: l’autorità e la legalità (che rendono possibile e giustificano il meccanismo di delega delle responsabilità); le dinamiche di uniformazione delle società di massa; la voluta diffusione di sentimenti negativi nella comunità (odio, risentimento, paura, etc.); la sospensione della capacità critica di pensiero a beneficio dell’esclusivo pregiudizio ideologico; l’educazione come strumento per inibire pensiero e sentimento (per approfondire questi singoli aspetti, si rimanda al volume A. Burgio, M. Lalatta Costerbosa, Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, DeriveApprodi 2016, in particolare pp. 253-274).
La questione della colpa e delle responsabilità riguarda il principio “attivo” della violenza, perpetrata dai carnefici e da tutti coloro che appartengono a quella che Primo Levi definì «zona grigia». Dall’altra parte, troviamo le domande lasciate aperte dalla sofferenza delle vittime. Dopo Auschwitz, si dice, il pensiero filosofico e teologico non ha potuto fare a meno di tornare a interrogarsi sul male, concetto che racchiude tanto il male agito quanto quello subito, tanto il male nella sua concretezza umana quanto il male che rimanda ad altre dimensioni.
In questa direzione, si muove il filosofo francese Paul Ricoeur (1913-2005) nel piccolo ma denso volume Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia (1986). Ricoeur riconosce la necessità di recuperare una linea di pensiero che attraversa la storia della filosofia occidentale, partendo dai miti che tentavano di fornire una spiegazione all’origine del male, passando per le teorie sempre più raffinate di pensatori come Agostino e Kant. Una parte delle difficoltà nel trattare il concetto di male consiste per Ricoeur nel fatto che esso abbraccia contemporaneamente non solo la colpa, la sofferenza, la morte, ma anche un costante riferimento a qualcosa di trascendente, che per i credenti è Dio, ma che continua a restare misterioso anche in un pensiero laico. Le domande che Ricoeur attraversa sono «Perché?», «Perché a me?», «Da dove viene il male?», «Da dove viene che noi facciamo il male?». L’eccesso di male a cui si è assistito rende impossibile ricorrere alle teorie della distribuzione per le quali la sofferenza non sarebbe che una punizione meritata di una colpa (individuale o collettiva). Nessuna colpa può essere alla base di una punizione di questa portata. Alla speculazione filosofica, per Ricoeur è necessario affiancare l’agire, riconoscendo che «ogni azione, etica o politica, che diminuisce la quantità di violenza esercitata dagli uomini gli uni contro gli altri diminuisce il tasso di sofferenza nel mondo». Ma, ancora una volta, questo non risponde al perché di vittime innocenti. Ricoeur aggiunge così l’elemento della risposta emozionale che si concretizza in una rinuncia al desiderio di essere ricompensato dalle proprie virtù, risparmiato dalla sofferenza e dalla morte, «amando Dio per nulla» come Giobbe al termine di tutte le sue sofferenze. Un orizzonte che per Ricoeur in qualche modo avvicina la tradizione giudeo-cristiana a quella buddhista, ma che non a tutti può bastare.
Crediti immagine: Shalechet. Menashe Kadishman, 2001, volti metallici. Berlino, Museo Ebraico, Songphon Maharojanan, Shutterstock