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Jan Karski, l’uomo che provò a fermare la Shoah

Jan Karski (1914-2000), cattolico polacco, ha rischiato la sua vita per testimoniare al mondo l’esistenza dei campi di sterminio collaborando con la resistenza. Ha raccontato la sua vita in un’opera letteraria di cui ci parla Andrea Tarabbia.

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Il suo vero nome era Jan Kozielewski, ma nel corso della sua vita travagliata lo ha cambiato molte volte: all’inizio della Seconda guerra mondiale, per esempio, fu per alcuni mesi Witold Kucharski; dal 1943 prese il nome di Jan Karski, e con questo pseudonimo convisse fino alla morte, avvenuta nel 2000 a Washington. Era nato nel 1914 a Łódź, nel centro esatto della Polonia, era molto cattolico, studiò Giurisprudenza all’Università di Leopoli, che all’epoca, e fino al 1945, era una città polacca e aveva una delle università più prestigiose dell’Europa centrale. Poi venne la guerra e tutto cambiò: per lui, per la Polonia e per il mondo intero. Nel 1939 il governo polacco fuggì da Varsavia e si ricostituì clandestinamente a Londra, da dove diresse l’Armia Krajowa – il movimento di resistenza che, tra le varie cose, contribuì all’insurrezione di Varsavia del 1944.

VARSAVIA DURANTE LA GUERRA (CON UN CAPITOLO DEDICATO ALL’INSURREZIONE): https://www.ilpost.it/2015/01/17/liberazione-varsavia/

Kozielewski, che dopo la laurea intendeva intraprendere la carriera diplomatica, cominciò a collaborare con il governo in esilio inviando a Londra dei report sulla situazione della Polonia in seguito all’invasione nazista: aveva dalla sua, oltre che una buona dose di coraggio, anche una memoria prodigiosa e uno sguardo che sapeva essere imparziale. Il governo polacco cominciò ad affidargli incarichi diplomatici sempre più importanti finché, nel 1940, quando ormai viveva in semiclandestinità e aveva assunto il nome di Witold Kucharski, venne arrestato dalla Gestapo e torturato. Passò alcuni mesi nelle carceri naziste e, quando uscì, scoprì che i tedeschi avevano dato inizio alla Soluzione finale e, tra le altre cose, intendevano liquidare il ghetto di Varsavia.

Qui comincia la storia, straordinaria e terribile, di Jan Karski. La resistenza polacca gli chiese di farsi testimone: venne portato due volte dentro il ghetto di Varsavia affinché ne osservasse l’orrore; in seguito, gli fecero indossare la divisa di una guardia ucraina, corrotta con denaro e sigarette, e lo introdussero nel campo di concentramento di Izbica Lubelska, non lontano da Lublino, nella Polonia orientale, affinché si facesse testimone dell’altro volto dell’orrore. Era l’inizio degli anni Quaranta, nessuno al mondo sapeva davvero come fosse la vita in un ghetto e nessuno sapeva, o credeva, che esistessero i campi di sterminio.

A proposito di ciò che vide, Karski scrisse che il ghetto di Varsavia «era popolato da corpi che si muovevano ancora, spesso in preda a un’agitazione violenta. Erano persone ancora in vita, se si può definirle così. Perché – a parte la pelle, gli occhi e la voce – in quelle figure tremebonde non era rimasto nulla di umano. Ovunque c’erano fame, miseria, lezzo rivoltante di corpi in decomposizione, gemiti lamentosi di bambini in agonia, grida e sussulti di persone che lottavano fino all’ultimo nel disperato tentativo di sopravvivere».

Per alcuni anni, Karski girò il mondo occidentale per dire di questo orrore, portando come prova il suo sguardo, che si faceva via più spento man mano che, in Inghilterra come in Francia come negli Stati Uniti, capiva che ciò stava raccontando, ciò che aveva visto in Polonia, era indicibile e non veniva creduto. Lo accolse a Washington il presidente Roosevelt, che si mostrò freddo davanti al racconto di una cosa che noi, oggi, diamo per scontata: il fatto che l’eliminazione di ebrei, omosessuali, oppositori politici e altre categorie umane fosse pianificata a tavolino dai nazisti; non gli diede molto peso H.G. Wells, lo scrittore inglese autore della Guerra dei mondi che, allora, era una delle voci più note del mondo occidentale; celebre fu ciò che gli disse Felix Frankfurter, ebreo e giudice della Corte suprema degli Stati uniti: «Non dico che lei stia mentendo... Dico solo che non riesco a credere a quello che dice».

Così, disperato e solo, Karski si mise a scrivere la sua autobiografia: era il 1944, si era ormai trasferito negli Stati Uniti e, in pochi mesi, dettò a una dattilografa Storia di uno Stato segreto, un’opera che noi conosciamo, in Italia, con il titolo di La mia testimonianza davanti al mondo. È un libro straordinario, potentissimo – ed è il motivo per cui parliamo di Karski nella sezione dedicata all’italiano e non in quella dedicata alla storia.

La testimonianza di Karski davanti al mondo

«Questo libro riguarda una storia personale, la mia storia. Ho cercato di riportare alla memoria tutto ciò che ho vissuto, di riferire le mie attività e le azioni di coloro con cui sono venuto in contatto». Così scrive Karski nel poscritto della sua autobiografia, un ponderoso volume di circa 500 pagine in cui convivono, come si diceva, il racconto dell’orrore e la frustrazione per il silenzio con cui la sua testimonianza è stata accolta da questa e dall’altra parte del mondo occidentale. La mia testimonianza davanti al mondo è la cronaca di alcuni anni della vita di un uomo disposto a farsi torturare pur di vedere con i propri occhi il lato oscuro del mondo e poterne diventare testimone.

È allo stesso tempo un libro scritto in uno stato d’ansia costante – l’ansia di trovare un canale per farsi ascoltare; contiene molte imprecisioni e inesattezze: per esempio, Karski scrive di aver visitato il campo di sterminio di Bełżec, quando invece sappiamo che visitò Izbica Lubelska. Come è possibile un errore tanto grossolano? È possibile perché i due campi sono piuttosto vicini, e Karski vi arrivò in modo rocambolesco e affannoso: nessuno, inoltre, gli diede il benvenuto – dovette semplicemente intrufolarsi, mettendo a rischio la sua stessa vita. Un’altra imprecisione, stavolta voluta, è legata alla nazionalità delle guardie dei lager: si sa che, nella Polonia orientale, la maggior parte del personale non tedesco di stanza nei campi era ucraino; Karski scrisse però che la nazionalità di molte guardie di Izbica Lubelska era estone, ma lo fece su precisa richiesta del governo polacco, che non voleva esasperare i rapporti con l’Ucraina.

Ogni pagina della Testimonianza fu infatti vagliata e approvata dal governo in esilio a Londra, ogni informazione fu filtrata per evitare scandali diplomatici: era in corso una guerra sanguinaria e si era alle porte di un nuovo ordine mondiale, ogni parola doveva essere soppesata; così, in molti casi, Karski modificò i nomi delle persone che nominava in modo da proteggerle, e attenuò l’indignazione provata davanti all’ottusità dei grandi leader politici che non gli credettero. Scrisse a più riprese, e lo ripeté fino alla fine della vita, che la Shoah poteva essere fermata, che gli inglesi avrebbero potuto bombardare la Germania e diffondere tra la popolazione la notizia dei campi; ma non vollero farlo perché non pensarono che ciò che Karski diceva fosse davvero possibile. La prima edizione americana del libro vendette 360.000 copie.

Il testimone inascoltato

Immaginate per un instante di essere lui; immaginate di dover convivere, per 60 anni, con la consapevolezza di aver visto, di aver avvertito chi poteva fermare tutto questo e di non essere stato ascoltato; immaginate l’impotenza e il dolore. Nel 1978, il regista francese Claude Lanzmann intervistò Karski nella sua casa americana: 40 minuti di quell’intervista diventarono uno dei cuori di Shoah, un documentario di oltre 9 ore uscito in Francia nel 1985 e considerato tutt’oggi uno dei documenti più importanti sullo sterminio.

Ebbene, quei quaranta minuti si trovano online in lingua originale (l’inglese un po’ scolastico che Karski aveva imparato stando negli USA), ma non è necessario che li guardiate per intero: bastano i primi due minuti, e basta guardare Karski (il suo volto scavato, il modo in cui si muove). I segni che ha sulle guance sono le cicatrici delle torture subite dalla Gestapo nel 1940. Non riesce a parlare, benché siano passati 35 anni dai fatti che racconta: si commuove, scoppia a piangere, se ne va.

È con la descrizione di questa scena che comincia uno strano romanzo francese, pubblicato nel 2009 da Yannick Haenel con il semplice titolo di Jan Karski. L’edizione italiana, del 2010, si chiama Il testimone inascoltato. Il romanzo ripercorre la vita e il dolore di quest’uomo giusto e disperato. Ma, ecco, come si può scrivere un romanzo biografico su una storia che è già stata raccontata, oltretutto in un libro splendido?

Haenel si pone questo problema, e sa che, per quanto buono il suo libro possa risultare, non sarà mai potente quanto la testimonianza originale, poiché essa è vera (al netto di inesattezze e censure) ed è raccontata dal diretto interessato; così costruisce uno strano oggetto letterario, un romanzo atipico diviso in tre parti: nella prima, come dicevo, descrive Jan Karski davanti alla telecamera di Claude Lanzmann – il racconto è letteralmente è la riproposizione, attraverso la parola scritta, delle immagini del documentario; nella seconda parte, Haenel riassume La mia testimonianza davanti al mondo, implicitamente ammettendo la sua impotenza: se davvero volete conoscere questa storia, sembra dire, l’unico modo possibile è tramite le parole di Karski; nella terza, infine, inserisce un io narrante: è un monologo finzionale, in cui Jan Karski racconta la propria vita e le proprie opinioni, di fatto ripercorrendo la storia già raccontata nelle prime due parti, ma aggiungendovi un tocco introspettivo.

Così, Haenel riscrive tre volte la stessa storia, e ogni volta mette in moto un principio narrativo diverso. Non potendo competere con la potenza dell’autobiografia di quest’uomo, e nemmeno con la sua verità e il suo dolore di testimone e di messaggero, cerca altre strade, moltiplicando le prospettive e i livelli di lettura. È importante che ciò che racconto qui dentro, in questo mio libro, sia vero? È importante la verità? Certo che lo è: ma chi vuole la verità di Karski ha a disposizione la sua Testimonianza e il lavoro di tutta la sua vita; Haenel qui non cerca la verità, per lo meno non in prima istanza: ciò che cerca è dei modi diversi per raccontare una storia già nota.

Il libro suscitò delle polemiche: lo stesso Claude Lanzmann sostenne che Haenel aveva falsificato la storia. Chissà cosa ne avrebbe pensato Karski, che per poter raccontare la verità su ciò che aveva visto dovette modificare i nomi e soppesare ogni parola – e che pure la vide, vide la verità, farsi strada prepotentemente tra le sue pagine.

QUI, INVECE, UN APPROFONDIMENTO SUL ROMANZO E LE SUE FORTUNE: https://www.ospiteingrato.unisi.it/narrare-la-shoah-jan-karski-yannick-haenel-e-dintorni/

Crediti immagine: piotrbb, Shutterstock

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